In questo interessante articolo del Corriere della Sera, sezione cultura, si parla di The Lifespan of a Fact, un libro che nasce dalla collaborazione tra lo scrittore John D’Agata e il fact checker Jim Fingal.
Ora, alzi la mano chi di voi ha mai sentito parlare di questa figura professionale.
Incuriosita, ho fatto una breve ricerca in rete e ho scoperto che mentre in Italia è quasi sconosciuto, nel mondo anglosassone e tedesco il fact checker è fondamentale per garantire autorevolezza alle testate periodiche. Esistono addirittura reparti dedicati esclusivamente al fact checking, come nelle redazioni del New Yorker e del Der Spiegel.
Ma qual’è il compito di questo “verificatore di fatti”? Come dice la traduzione letterale, si occupa di verificare l’attendibilità e la correttezza delle informazioni presenti negli articoli.
Immaginiamo cosa potrebbe significare in Italia, dove si fa un uso piuttosto disinvolto delle notizie senza controllare le fonti e badando soprattutto all’effetto sensazionalistico. Potremmo avere un’informazione più scarna e meno avvincente ma con molta più sostanza. Più Sole 24 ore e meno Tgcom per intenderci. Vorrebbe dire fare le pulci a tutte quelle dichiarazioni spacciate per dati di fatto, ossia chiudere la bocca a gran parte dei nostri politici.
Da ingegnere non posso che apprezzare questo rigore nella ricerca della Verità, ma mi rendo conto che in certi casi possa raggiungere il paradosso. Una notizia non può ridursi a un comunicato stampa, per quello ci sono gli organismi come l’Ansa, e le informazioni hanno bisogno di un lavoro di mediazione per essere fruibili e pienamente comprese dal pubblico.
Questo concetto viene esasperato nel libro, dove assistiamo a un dialogo impossibile tra velleità artistiche e ossessione per la correttezza: mentre D’Agata romanza i fatti per renderli più incisivi e contestualizzarli, Fingal non si limita a correggere le numerose imprecisioni e iperboli ma ne fa una questione di principio morale, andando a far le pulci ad ogni singola affermazione. Incapaci di trovare un compromesso, spingono la loro idea di scrittura ai limiti estremi, arrivando perfino ad insultarsi.
Riflettendo sul mio stile di scrittura, non posso dare ragione a nessuno dei due: quando si racconta una storia vera non bisogna ingannare il lettore nascondendosi dietro la scusa di esigenze artistiche o letterarie ma non si deve nemmeno essere così fedeli ai fatti da renderli una mera lista della spesa. Per avere una storia ben scritta e che possa comunicare qualcosa ai lettori bisogna quindi ricercare un sottile equilibrio tra realtà e narrazione.
Nessuno ha detto che sia facile…