
Ritorno a parlare di viaggi, anche se più che un resoconto dettagliato vorrei lasciare qualche impressione, per parole e immagini, di una regione che mi ha saputo stupire con la dolcezza dei suoi paesaggi e l’accoglienza gentile delle persone incontrate.
La Carinzia è una regione austriaca, posta al confine con Italia e Slovenia. Se l’anno scorso abbiamo passato dei bellissimi giorni nel parco del Triglav, scendendo ogni tanto fino alle acque del lago di Bohinj, quest’anno siamo passati dall’altro lato delle Dolomiti e abbiamo percorso duemila chilometri in esplorazione, tenendo come punto fisso la stessa casetta posta sul fianco di un alpeggio, tra fattorie e prati verticali, a venti minuti di auto dal primo paese. Se dal punto di vista logistico si è rivelata una scelta piuttosto scomoda, siamo stati ripagati dalla bellezza e dalla serenità di questo vecchio rifugio da caccia, restaurato e ingrandito, semplice e accogliente, pronto a confortarci nelle fredde serate estive mentre giù a valle il caldo spadroneggiava.

Come sempre non sono riuscita a vedere tutto quello che avrei voluto: ho dovuto dimenticare le giornate fitte di visite e arrendermi a qualche giornata di ozio, reso veramente tale anche dalla quasi completa mancanza di copertura telefonica. Senza televisione, senza cellulare, ma con qualche libro, tanti pennarelli e giochi, abbiamo passato delle ore preziose tutti insieme. Non ho scritto nulla, la convivenza forzata a tutte le ore non mi ha lasciato momenti di raccoglimento sufficienti a comporre poco più di qualche post su Facebook, lanciato nell’etere in attesa di essere caricato.

Ho letto però ben tre libri: Bestiario di Cortazar, su invito di un’amica scrittrice; La nostalgia felice di Amelie Nothomb e La scrittice criminale di Marina Morpurgo. Unico elemento in comune le dimensioni contenute, adatte al viaggio, le densità e le atmosfere invece completamente diverse e feconde di suggestioni tra le più distanti tra loro; il solito disordine di lettrice che mi caratterizza, curiosa di assaggiare e mescolare piatti diversi e discordanti tra loro, sempre nella speranza di scoprire nuove assonanze.
La Carinzia è una valle che si distende pressapoco da est a ovest, abbracciata a nord e sud da alte vette, e nel suo ventre verde scorre sinuosa e placida la Drava, fiume che avevo già incontrato a Maribor e che ho salutato con piacere. Il paesaggio è pulito e curato, attraversato da lame di luce che come fari di scena portano l’occhio ad apprezzare i diversi frammenti che lo compongono: i paesi più piccoli e poi le città più grandi, si addensano attorno agli alti campanili a cipolla che punteggiano la pianura e i versanti; la campagna si allarga docile, verde d’erba, gialla di girasoli, i lembi tenuti insieme da siepi scure o bordure fiorite, dai rosa e rossi e gialli che colpiscono l’occhio come punti luminosi di un quadro di Seurat. Ogni tanto un filare di alberi lungo un corso d’acqua, o un vecchio albero da frutto in mezzo alla campagna, interrompe la successione di fazzoletti verdi e marroni. D’improvviso ci si accorge del binario che scorre lungo tutta la valle, le motrici rosse della OBB con i loro carri merci o i piccoli treni passeggeri colorati a due o tre vagoni aumentano la sensazione di trovarsi in un plastico, ideato da una mente operosa e mite, che accanto alle fattorie, alle segherie, ai capitelli affrescati posti a ogni crocicchio, si ricorda di aggiungere monoliti industriali: una cava, un’industria siderurgica dalle infinite luci notturne, complessi imponenti appena usciti dalla scatola del modellista. E così i cartelli in tedesco si susseguono alle scritte gotiche dipinte a caratteri cubitali sui muri, un segno grafico calcato e infantile ritorna nei segnali stradali e in certe insegne, tutto è votato all’efficienza e sembra impossibile che le migliaia di gerani che ingentiliscono i legni scuri delle case e delle fattorie non lascino cadere a terra nemmeno un petalo e che anche gli intonaci aggrediti dal tempo si polverizzino con compostezza e ordine teutonico.
A tutto questo si contrappongono le innumerevoli pozze d’acqua che specchiano il cielo e le nuvole, che corrono veloci e giocano con i raggi del sole, regalano piogge torrenziali improvvise e arcobaleni che trasportano in una dimensione mitica. E se lo sguardo, stanco delle dolci curve della valle che si increspano in tonde colline punteggiate di castelli e campanili, si volge ad altitudini maggiori, viene accolto da infiniti boschi, fitti e vivi di scoiattoli e cerbiatti, mentre le mucche pascolano su prati spazzolati, tirati con il righello, piccoli riquadri strappati al bosco, una cucitura di cespugli, di rovi o di fiori odorosi, e sempre una strada sottile che attraversa discreta, buia, una lingua di asfalto appena percepita e che si confonde mentre segue il fianco della montagna e va a morire sulla soglia di una fattoria lontanissima, antica e moderna allo stesso tempo, dove non mancano mai un trattore e un piccolo missile lucente per il latte, si cuoce un pane duro e odoroso nei forni a legna, illuminati con la torcia, si fa un burro giallo e pastoso, un latte che sa di erba e di felicità.
In dieci giorni abbiamo visitato Villaco, Spittal an der Drau, Milstatt, Klagenfurt am Worthersee, Sankt Veit an der Glan; siamo stati alla collina dei macachi ad Affenberg e abbiamo visto da vicino i rapaci all’Adler Arena del castello di Landskron; siamo saliti a 1875 m per vedere il parco di Heidi, tra pini cembri e prati, regno delle marmotte; dall’Ossiacher See abbiamo raggiunto con la cabinovia e poi la seggiovia il comprensorio sciistico di Gerlitzen a 1911 m dove in una giornata tersa abbiamo potuto affacciarci su un panorama spettacolare, splendente di cime e laghi. Siamo risaliti lungo un orrido fino alle cascate di Ferlach, abbiamo riposato e fatto il bagno nelle acque limpide del Millstatter See, abbiamo visitato musei della scienza e della tecnica ed etnografici; abbiamo mangiato un numero spropositato di panini e di ciambelle rotonde con uvetta e crema di nocciola; ci siamo spiegati con qualche parola di inglese per compensare il tedesco quasi inesistente e abbiamo risolto con grandi sorrisi e il linguaggio internazionale dei segni.
Ho scattato tante foto, come sempre, appunti per immagini; eppure sento di dover tornare, c’è ancora molto che non ho afferrato, capito, e mi resta come un senso di incompiuto, come se avessi ancora molte pagine da sfogliare per arrivare alla fine di questo viaggio.