Motel Life di Willy Vlautin

È curioso come le ultime letture mi abbiano trasportato dal fascino misterioso dell’Hotel Lagoverde alle squallide stanze dei motel di Reno, in Nevada.

I maggiori punti di contatto tra i due libri sono la musica (Willy Vlautin, l’autore, è cantante e musicista), Torino (dove ho scoperto la casa editrice Jimenez) e i racconti, quelli che Frank inventa per il fratello Jerry Lee e che punteggiano Motel Life, un romanzo che rotola veloce, lasciando impresse tristezza, nostalgia, dolcezza e anche un briciolo di speranza.

Frank e Jerry Lee sono due giovani adulti, due fratelli che si sono trovati troppo presto a dover badare a se stessi. Uno è molto bravo a raccontare storie, l’altro a disegnare, ma non sono certo qualità sufficienti per cavarsela in una città come Reno, famosa per i suoi casinò, i giocatori di azzardo e i motel che sono cresciuti a centinaia e che dopo aver ospitato per anni frotte di turisti si sono declassati a residenze per poveracci, emarginati, gente che a fatica tiene insieme la propria vita.

In una desolazione di neve e alcol si apre il racconto di Frank che ricorda: ricorda la notte in cui tutto è precipitato, in cui il precario equilibrio che lui e il fratello avevano raggiunto sembra compromesso, l’ennesimo colpo di sfortuna che potrebbe prostrarli per sempre, loro nati perdenti, convinti di non poter essere altro, in una terra, l’America, che non ha pietà per chi resta indietro.

La sfortuna si abbatte sulla gente ogni giorno. È una delle poche certezze nella vita. È sempre pronta, sempre lì, in attesa. La cosa peggiore, la cosa che mi terrorizza di più, è che non sai mai chi colpirà né quando.

Jerry Lee è rimasto coinvolto in un incidente, un ragazzo è morto e i due fratelli decidono di scappare. Inizia un viaggio che li porterà lontano da Reno, per poi tornare e infine lasciarla, per sempre.

I capitoli sono brevi, rapidi, ognuno impreziosito all’inizio dallo schizzo di un’insegna, di un particolare urbano, come ci immaginiamo possano essere i disegni di Jerry Lee; la sua lingua invece impariamo a riconoscerla presto: è brusca, schietta, eccessiva.

Jerry Lee si sedette. Trovò una birra ai suoi piedi e la aprì.

«Cristo, a quello non voglio proprio pensarci, non adesso. Non tirarla fuori quella storia. E per la vita nei boschi, lì non c’è niente da fare, e la cosa peggiore è che ci sono tutti quei ragazzini che finiscono con le braccia mozzate dai macchinari agricoli. Poi li vedi che guidano solo con i piedi. E alberi che cadono sulla gente, motoseghe e roba del genere. Succedono cose orribili nei boschi, credimi. Mai sentito di famiglie ammazzate nei boschi? Orsi, roditori, serpenti e più insetti di qualsiasi altro posto al mondo, veterani del Vietnam completamente pazzi e montanari».

La narrazione è avvincente, costruita su dialoghi, ricordi, personaggi del passato e del presente che irrompono con il loro piccolo pezzo di vita, le loro debolezze e le loro disgrazie. Non c’è compatimento per nessuno nel racconto di Vlautin: la vita è così, si fanno scelte giuste o sbagliate, quasi sempre sbagliate, ma non c’è giudizio, non c’è pena.

(…) Siamo tutti incasinati, quindi tendiamo a stare con gente incasinata. E per me è giusto che sia così. Ma questo non vuol dire che siamo persone cattive, no? Se sei stato sfortunato non vuol dire che lo sarai sempre, no? Certa gente è sfortunata, ma le cose possono cambiare. Non penso che ci sia gente condannata alla sfortuna. E poi tu hai bisogno di qualcuno. Di tutti gli uomini che conosco sei quello che ha più bisogno di qualcuno. Sei la persona più solitaria che conosco. Lo dicono tutti. Persino Tommy».

E sopra la colpa, sopra la sfortuna, sopra ogni cosa resta la speranza:

Perché avere la speranza è meglio che non avere proprio niente.

E se non ce l’hai, se non sai trovartela, cerca almeno qualcuno che sappia donarti un po’ della sua.

Motel life di Willy Vlautin, Jimenez edizioni.

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