Il labirinto più grande del mondo è in provincia di Parma

Il labirinto ha sempre affascinato l’uomo. Già nelle caverne preistoriche se ne trovano antiche tracce e tutti conosciamo il mito di Arianna, Teseo e il Minotauro. Forse non tutti sanno invece che il labirinto più grande del mondo si trova in Italia, a Fontanellato, in provincia di Parma.

Fortemente voluto da Franco Maria Ricci (1937-2020), architetto, editore, collezionista, il labirinto della Masone si estende per otto ettari nella campagna emiliana.

Si tratta di un luogo metafisico in cui ampie strutture in mattoni abbracciano e si fanno abbracciare da viali di bambù, oltre duecento specie diverse, in un dialogo costante tra natura, uomo e arte.

Superato il primo cortile, si accede al percorso labirintico, di tipo romano ad angoli retti, racchiuso dentro una forma a stella. I sentieri sono pavimentati in calcestruzzo, in ombra dove crescono i bambù più alti, e il percorso si sviluppa sui quattro lati di una struttura centrale, un secondo cortile dominato da una piramide all’interno della quale c’è una cappella.

Diversi pannelli sulla storia dei labirinti e del proprietario si alternano a opere d’arte vegetali, simili a quelle che si possono trovare ad Arte Sella, altro sito museale all’aperto che cerca un dialogo tra arte e natura.

La possibilità di perdersi in questo bosco dal sapore orientale è concreta ma piacevole. C’è la sicurezza di essere recuperati in caso di bisogno (ci sono numeri di riferimento in alcuni punti significativi del percorso) e il leggero spaesamento di non avere coordinate, di non essere rintracciabili, in una società come quella di oggi in cui possiamo orientarci in luoghi mai visti grazie alle informazioni satellitari.

La soluzione del labirinto è intuitiva senza essere troppo semplice e la passeggiata gradevole in questo verde ammansito ma non del tutto domestico.

La scelta del bambù invece del bosso, comunemente usato nei labirinti privati delle ville, è dovuto anche alla sua velocità di crescita: il labirinto del Maseno è aperto dal 2015, pochi anni dopo la sua realizzazione.

Curiosità e scoperta dominano la visita del parco e delle collezioni della fondazione Franco Maria Ricci, specchio di un animo eclettico, appassionato di arte e fondatore della rivista FMR, oltre che editore di alcune collane raffinate.

All’interno dell’impianto museale è disponibile non solo la collezione artistica del fondatore, ma anche la sua biblioteca personale e una galleria con tutte le pubblicazioni della sua casa editrice, liberamente consultabili.

Interessante notare i continui rimandi tra le opere raccolte e quelle pubblicate, in una coerenza interna che affascina.

Tra i tanti, mi ha colpito trovare numerosi riferimenti e connessioni con Italo Calvino e Jorge Luis Borges. Soprattutto il secondo pervade con il suo spirito tutta l’opera. È lo stesso Franco Maria Ricci a dire:

Sognai per la prima volta di costruire un Labirinto circa trent’anni fa, nel periodo in cui, a più riprese, ebbi ospite, nella mia casa di campagna vicino a Parma, un amico, oltreché collaboratore importantissimo della casa editrice che avevo fondato: lo scrittore argentino Jorge Luis Borges.

Il Labirinto, si sa, era da sempre uno dei suoi temi preferiti; e le traiettorie che i suoi passi esitanti di cieco disegnavano intorno a me mi facevano pensare alle incertezze di chi si muove fra biforcazioni ed enigmi.

Credo che guardandolo, e parlando con lui degli strani percorsi degli uomini, si sia formato il primo embrione del progetto che finalmente, nel giugno del 2015, ho aperto al pubblico.

La visita a questo giardino si è trasformata in un percorso nella storia, nella letteratura e nell’arte, e mi ha lasciato molte suggestioni e molte domande, come solo le migliori storie sanno fare.

Cromorama – come il colore ha cambiato il nostro sguardo.

In questo saggio del 2017 Riccardo Falcinelli ci accompagna alla scoperta della storia del colore, in un viaggio approfondito e davvero appassionante.

Il tono dell’opera è divulgativo, accattivante e al tempo stesso scientificamente accurato. Gli aneddoti anche personali dell’autore si legano all’analisi di fenomeni di costume, sociologici e storici, raccogliendo un bacino di curiosità inesauribile che si innesta però su una struttura solida e ben articolata, che non dà mai l’impressione di perdere il punto del discorso.

Scopriamo così che il concetto che abbiamo noi del colore è diverso da quello che avevano i nostri antenati nelle varie epoche e che il significato dato ad esso può variare a seconda delle coordinate geografiche e temporali, delle teorie filosofiche e dei progressi scientifici. Il bianco che un pittore ricava dalla biacca nell’Ottocento era tossico e non poteva essere usato ad affresco, il bianco che compriamo in tubetto in cartoleria non scade ed ha sempre la stessa resa, qualsiasi campione ne acquistiamo, e costa come un blu oltremare, cosa impensabile nel passato, in cui l’azzurro era espressione di potere e regalità – pensiamo al velo della Madonna – proprio per il suo altissimo costo economico.

Anche il modo in cui fruiamo di un’opera incide sulla percezione che abbiamo del colore: le icone, con i volti scuri annegati in un oro liquido, erano pensate per un’esposizione alla luce fioca e danzante delle candele, che era in grado di esaltare i riflessi aurei e dare loro movimento. Una pala del Seicento non era certo immaginata esposta alla luce dei neon in un museo moderno e così le velature e la resa dell’incarnato di un Tintoretto non hanno la stessa resa di un quadro impressionista sui nostri schermi retroilluminati.

Un altro aspetto che mi ha affascinato durante la lettura sono gli approfondimenti legati alle varie arti,  penso a Goethe e ai suoi studi sul colore o all’intero capitolo dedicato a Madame Bovary e al motivo per cui Flaubert la veste di blu, o al capitolo in cui Falcinelli analizza le scelte cromatiche nel film “La donna che visse due volte” di Hitchcock, scoprendo nell’alternanza di verdi e rossi un altro livello di lettura della storia e una anticipazione della trama.

Ovviamente in un libro sul colore non possono mancare i riferimenti iconografici, e lo spessore notevole del libro (che ammetto all’inizio mi aveva un po’ preoccupato) è dovuto anche alle numerose immagini che fanno da contrappunto al testo e accompagnano la lettura, arricchendola con riferimenti diretti e immediati.

La bibliografia inoltre, come è immaginabile per un’opera così ampia, è molto vasta e invece che essere richiamata da continue note a piè di pagina, viene esplicitata in forma breve in verticale, sul lato interno del paragrafo corrispondente, rendendo molto scorrevole la lettura e senza perdere alcun riferimento.

Completano l’opera le appendici (concetti scientifici e principali modelli cromatici) e l’elenco iconografico, tutti elementi che confesso di non aver letto, perché alla fine, quello che più ho amato di questo saggio è la sensazione di fare una chiacchierata piacevole con una persona esperta sì dell’argomento, ma che soprattutto adora comunicarlo e spiegarlo, e lo fa con amore per la narrazione e sapiente padronanza del ritmo.

Cromorama di Riccardo Falcinelli. Edizione Einaudi stile libero.

Bivacco 17 insieme ai ragazzi selvatici Daniele Girardi e Paolo Cognetti.

La nostalgia della montagna è sempre più forte, ancora più in questi mesi di forzata lontananza. L’unica cura è assumerla in dosi omeopatiche, tramite somministrazione quotidiana di immagini, parole e persone che riescono a evocarla in tutte le sue sfaccettature.

Una sera di dicembre mi sono spinta attraverso le nebbie padane per raggiungere Verona e assistere alla presentazione del catalogo Bivacco 17, sulla mostra allestita presso la Galleria La Giarina. Ormai in fase di chiusura (31 gennaio) affianca e contrappone l’opera di due artisti, Daniele Girardi e Claudio Costa, talmente dissimili e lontani da provocare riflessioni e scatenare suggestioni sul senso dell’arte, della materia e del rapporto dell’uomo con entrambe.

Seguo da qualche anno il lavoro di Daniele e nonostante la sua riservatezza e la mia insicurezza (approcciare persone che stimo mi costa uno terribile sforzo fisico ed emotivo) siamo riusciti a creare un prezioso legame di amicizia, basato sul comune amore per la natura e l’arte. Un’amicizia molto più forte e robusta lo lega allo scrittore Paolo Cognetti, presente alla serata per leggere alcuni passi del suo ultimo libro Le otto montagne. E’ stato proprio Daniele con i suoi preziosi suggerimenti di lettura a farmelo conoscere come scrittore qualche anno fa. Solo che lui non si è limitato a leggerlo, ma dopo avergli scritto hanno iniziato a camminare insieme in montagna. Mi sono subito apparsi come un duo perfetto e a distanza di anni, avere l’occasione di vederli finalmente insieme, mi ha emozionato molto e ha confermato la profonda intesa tra questi due artisti.

L’opera principale della mostra, e che le dà il titolo, è il Bivacco 17: la realizzazione site specific di un bivacco, ispirato a quelli lasciati a disposizione dei viandanti con legna asciutta e qualche genere di prima necessità, che Girardi ha incontrato spesso nei suoi viaggi, sia sulle nostre montagne che nei suoi viaggi nelle terre del nord. L’installazione che accoglie il visitatore è abitata da ricordi, frammenti e appunti di viaggio dell’artista. Un diario visuale e materico di quella che per Girardi è la vera esperienza artistica: l’immergersi nella Natura incontaminata, l’esplorazione senza il desiderio di conquista, in cerca di una propria identità in relazione allo spazio selvatico. Il Bivacco 17 diventa così un rifugio accogliente, ambientazione ideale per la lettura di alcune pagine dell’ultimo libro di Cognetti: le parole scorrono veloci, nitide, perfettamente calate nell’ambientazione selvatica e scarna, eppure lucidamente moderna. Finito il racconto, la voglia è quella di stendersi in un sacco a pelo all’interno dell’opera, continuare la lettura e trovarsi a sognare stelle appese sopra boschi e cime sconosciute.

Nelle settimane successive ho avuto modo di leggere Le otto montagne – in maniera discontinua per cause avverse – e mi riservo di rileggerlo ancora, magari nella mia amata montagna, ancora più cara perché meno conosciuta, un po’ come la Grana del romanzo. Leggendo non sono riuscita a districare il piano dell’invenzione da quello reale, così tanti erano i passi che mi suonavano familiari, come se li avessi già sentiti, già letti. Si è quindi creato un cortocircuito tra letteratura, esperienza artistica e racconti ascoltati, lasciandomi una grande nostalgia del Nord, di montagne familiari e nuovi luoghi da esplorare, facendo esplodere come fuochi d’artificio ricordi di sentieri e viaggi, confusi, sovrapposti, eppure bellissimi.

Altro proposito per il futuro è leggere Walden, vita nei boschi di Thoreau, che pare avere una forte influenza su entrambi questi artisti  e su cui continuo ad inciampare da quando mi sono innamorata dell’Alaska e della natura non addomesticata.

Lasciare la città disumanizzata e vivere nella wilderness, contando sulle proprie forze e su pochi solidi legami, è un’utopia che mi affascina e seduce ma che, al contrario di Paolo e Daniele, non ho il coraggio di mettere in pratica. So vivere la montagna come fuga, come rifugio, ma non saprei trasformarla in luogo di vita, sento che contaminerei i miei sogni con le scorie della vita precedente, a valle. Mi accontento allora di collezionare libri e immagini di questi due, quasi miei coetanei, immaginando per un attimo di accompagnarli nel loro camminare, magari tra le mie montagne.

Paolo Cognetti (Milano, 1978). Scrittore. Di suo ho letto finora Manuale per ragazze di successo, Sofia si veste sempre di nero, Il ragazzo selvatico e Le otto montagne. In questo post parla del suo rapporto con Daniele che ha dato anche origine a uno dei suoi racconti.

Daniele Girardi (Verona, 1977). Artista. Negli ultimi anni si è dedicato al rapporto tra esperienza nella wilderness e arte visiva. Attualmente è stato impegnato nel progetto North Way, un ciclo di residenze nelle foreste del nord Europa (qui  e qui il suo diario per immagini). In precedenza si è dedicato all’esplorazione della Val Grande (vedi qui), dove ha portato anche Paolo. Di seguito alcune immagini sulle sue esperienze nelle Terre del Nord.

 

Di seguito qualche ricordo di una serata emozionante, in cui ho rivisto un amico e ho potuto scambiare qualche parola con un autore che ammiro e che temo di aver tediato con inopportuni racconti di viaggio… scusami Paolo!

 

Impressioni di Sicilia

Impressioni di Sicilia

Sferracavallo isola femmine

Per una serie di fortuiti eventi, troppo lunga e noiosa da spiegare, quest’anno abbiamo già consumato il nostro buono viaggio dell’estate acchiappando un volo low cost per Palermo e fuggendo dalla piatta pianura per ben quattro giorni.

Non ero mai stata prima in Sicilia e ne sono rimasta innamorata. I colori, i profumi, il cibo, la bellezza, i contrasti, la gente: piccoli assaggi che mi hanno lasciato il desiderio di tornare il prima possibile.

Chi mi conosce sa che sono una fanatica dell’organizzazione dei viaggi, cerco di sfruttare al meglio ogni momento e di cogliere il senso delle città che visito. Questo non vuol dire battere a tappeto tutti i monumenti, musei e chiese spuntando a una a una le attrazioni segnate nella guida. Significa parlare con la gente, mangiare la cucina tipica, perdersi nelle strade girando senza meta e visitare almeno i punti fermi che definiscono una città, che siano chiese, ristoranti o punti panoramici.

Anche a Palermo è stato così. Purtroppo non potevo contare sulle mie solite energie e sull’invincibilità del mio stomaco e ho dovuto fare delle scelte. Niente panino con la meusa o con le panelle, niente granita siciliana ma una dedizione totale ai dolci: in tre giorni sono riuscita a mangiare 4 cannoli, 1 cannolicchio, 2 cassatine e un’iris. Tenendo conto che ultimamente mi tocca mangiare come un uccellino sono molto soddisfatta. Peccato aver scoperto che non riuscirò mai a prepararmi da sola il cannolo siciliano: bisogna essere consapevoli dei propri limiti, soprattutto in cucina. Ora sganciate il nome di una pasticceria siciliana nei dintorni di Padova che quella in Piazza Mazzini ha appena chiuso!

Punta Raisi

Quando siamo atterrati a Punta Raisi, la prima impressione che ho avuto è stata di stupore. Nella mia totale ignoranza sulla geografia dell’isola, credevo di trovarmi davanti una terra piatta, non montagne tagliate nella roccia e verdi prati quasi verticali. Il contrasto con il mare azzurro, gli scogli neri e la natura dirompente delle bouganville e delle piante grasse, onnipresenti anche in autostrada, mi ha subito affascinato. Poi di colpo mi sono commossa, mentre passavamo l’uscita per Capaci, e ha iniziato a formarsi in me l’idea che la Sicilia sia più generosa con la natura che con gli uomini.

Siamo arrivati il sabato pomeriggio. La sera prima il Palermo aveva ratificato la promozione in serie A con record storico di punteggio. La città era colma di bandierine rosanere, manifesti ed esaltazione: le gioie del calcio, sport che non seguo ma apprezzo quando sa unire ed esaltare i cuori. Per fortuna questo è stato un fine settimana lungo di festa e la città era quasi deserta: abbiamo preso un’auto a noleggio e siamo riusciti a riconsegnarla integra alla fine della vacanza.

Ora, se posso dare un consiglio, guidare in centro a Palermo è un’esperienza per pochi: ci vogliono nervi saldi, capacità di adattamento e riflessi istantanei. Il traffico è lento, si viaggia generalmente sotto i limiti, ma la precedenza è una questione di volontà, la segnaletica orizzontale è inesistente e l’uso delle frecce di segnalazione è perso nella notte dei tempi. Immaginatevi una gran confusione con file di auto che si fanno e si disfano mentre le strade, perfettamente asfaltate, si allargano, si restringono, si chiudono di colpo. Motorini e pedoni appaiono da tutti i lati, le bancarelle occupano gli angoli degli incroci, il parcheggio è creativo, sia nella scelta degli stalli di sosta che nelle manovre di entrata e uscita. Un microcosmo con le sue leggi non scritte.

Il sabato pomeriggio siamo riusciti a parcheggiare, conoscere la nostra ospite e subito fare un giro per il Capo, una zona del centro storico, e vedere la Cattedrale illuminata dagli ultimi raggi del tramonto. A seguire una deliziosa cena di pesce all’aperto dove ho scoperto le polpette di sarde, divine! Abbiamo passeggiato per vie e vicoli, in una notte fresca dove il profumo delle bouganville copriva quello dei cumuli ordinati di spazzatura, gatti magri dalle lunghe gambe saltavano tra macerie e splendidi palazzi. Magnificenza e decadenza, strettamente intrecciate, come se una non potesse esistere senza l’altra.

La domenica è stata dedicata alla visita del centro antico della città: l’Albergheria, con Ballarò, la Kalsa e la Vucciria. Ho imparato che il centro antico è diviso in quattro zone: al centro ci sono i Quattro Canti, all’intersezione tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele. Lungo queste direttrici si sviluppano i quattro quartieri storici, mentre verso ovest c’è la città ottocentesca. Tutto intorno si espande Palermo, immensa.

Abbiamo iniziato con il Palazzo dei Normanni e la Cappella Palatina. Era prestissimo e siamo riusciti a vederla da soli, senza gruppi rumorosi di turisti. Un’esperienza forte che mi ha commosso: si entra in questa cappella ricavata al primo piano del palazzo, sede del Consiglio Regionale, e subito si viene investiti dalla ricchezza dell’apparato musivo, un bagno d’oro dove si fondono le arti delle maestranze bizantine, mussulmane e latine, in una ricchezza di personaggi e dettagli che chiede di essere ammirata e studiata con calma. Tutto è bellezza, tutto è rifinito con cura, non esistono spazi vuoti ma solo elegante decoro. Un gioiello che da solo merita il viaggio.

Anche il resto del Palazzo merita la visita, con le sue ampie sale, i ricchi arredi e questa commistione di stili che rende nuova e affascinante la visita. Era domenica e quindi quasi tutte le sale erano aperte, se volete visitarlo vi raccomando di studiare bene i tempi perchè essendoci uffici pubblici spesso molte non sono accessibili, la stessa cappella è visitabile per brevi fasce temporali in cui facilmente si accumulano turisti e comitive.

Usciti dal Palazzo ci siamo immersi nell’Albergheria e attratti dalle cupole rosa abbiamo raggiunto S. Giovanni degli Eremiti e il suo incantevole giardino con un delizioso chiostro, molto più belli della chiesa in sé, piuttosto spoglia.

Tornando sui nostri passi abbiamo raggiunto Piazza della Vittoria, con il bel giardino di Villa Bonanno, ricco di palme dietro le quali spunta il profilo della cattedrale. Domenica era giorno di comunioni e le chiese erano gremite di bambine vestite da spose e parenti in gran tiro. Siamo riusciti a vedere poco delle prime ma ci siamo rifatti con le seconde: e quando ci ricapita? Girovagando per le strette viuzze siamo arrivati al mercato di Ballarò: un tripudio di pesce fresco, frutta e verdura, cibo di strada e bancarelle con qualsiasi tipo di merce. Mi ha colpito vedere uomini che vendevano pacchetti di sigarette, i grossi tonni e i pescespada che riempivano la vista, tanti tipi di ortaggi che qui al nord non ci sono, siciliani, africani e indiani che lavoravano fianco a fianco senza inutili ghettizzazioni, animali, cover di cellulari, urla e risate, tanto lavoro e tanta gentilezza. Seguendo il nastro di bancarelle abbiamo attraversato piazze, vie fatiscenti, visto chiese e palazzi imponenti e corrosi dal tempo e dall’incuria. Pareva di essere sul set di un film, mi aspettavo da un momento all’altro di vedere una telecamera sulla mia testa, tanto la scena era densa.

Usciti dall’Albergheria ci siamo trovati alla fine di via Maqueda e abbiamo iniziato la risalita verso i Quattro Canti. L’obiettivo era cercare un posto dove mangiare, ma non abbiamo potuto fare a meno di fermarci a vedere La Martorana, la Chiesa di S. Cataldo lì a fianco, S. Caterina, la fontana della vergogna (fontana Pretoria) e la chiesa di San Giuseppe dei Teatini. Solo quest’ultima era visitabile, le altre ci aspettano per il prossimo viaggio.

Nel pomeriggio abbiamo cambiato scenario e ci siamo portati in Piazza della Marina, nella Kalsa, dove abbiamo sbirciato gli ultimi banchetti del mercato delle pulci e ci siamo riposati nel bellissimo parco all’ombra di un imponente ficus magnolioides, il più antico di Europa. Si tratta di un albero straordinario: il fogliame lucido ricorda quello della Magnolia mentre la struttura è composta da colonne che si espandono tutto intorno a sostenere la pesante chioma. Sono le radici che scendono direttamente dai rami e fanno da sostegno naturale a questa pianta meravigliosa, tipica delle foreste pluviali. Per chi si ricorda sembra l’albero dove la piccola Flo e la sua famiglia costruivano casa nell’isola deserta. Come potevo non innnamorarmene? L’esemplare europeo più grande è sempre a Palermo, all’orto botanico, ma purtroppo non ho avuto tempo per vederlo (e io adoro gli orti botanici).

La nostra esplorazione della Kalsa è continuata con Piazza della Magione e S. Maria dello Spasimo. In tutti e due i casi si tratta di ruderi impressionanti: il primo è rimasto a testimonianza dei bombardamenti subiti dalla città, la seconda è stata recuperata dopo aver subito diversi cambi d’uso nei secoli, anche se la volta crollata nel Settecento non è più stata ricostruita. Sono spazi urbani ricchi di significato, riportati in vita nonostante la desolazione in cui si trovavano. La piazza è diventata sede della movida giovanile, luogo d’incontro per concerti e manifestazioni pro legalità. Nella chiesa e negli ambienti attigui si svolge il Seacily jazz festival.

Non ancora sazi di cibo panormita, ci siamo diretti all’Antica Focacceria S.Francesco, luogo simbolo di Palermo, dove abbiamo gustato l’arancino alla norma più buono della nostra vita! Peccato fossimo piuttosto sazi altrimenti avrei razziato l’intero bancone.

Decisi a terminare il giro del centro storico, ci siamo diretti alla Vucciria dove abbiamo vagato senza meta trovandoci prima in piazza Garraffello, una piazza fatiscente sede di numerose installazioni artistiche abusive, con tanto di artista che arringava la folla, poi siamo sbucati sulla solita via Maqueda e infine ci siamo diretti verso il porto, ricordandoci così che Palermo si sviluppa lungo la costa.

Il giorno successivo doveva essere dedicato ad almeno un bagno in mare (l’acqua è terribilmente invitante) ma il brutto tempo ha modificato i nostri piani. Siamo così partiti alla volta di Monreale dove abbiamo visitato la famosa cattedrale con uno dei chiostri più belli che abbia mai visto, con le sue colonne binate ricoperte di mosaici, i capitelli finemente scolpiti e il contrasto tra la pietra calda, gialla, e il verde del giardino, con un ciuffo di palme al centro come ciliegina sulla torta. Il tempo di un cannolo e di una larga occhiata alla conca d’oro dall’alto e ci siamo diretti verso Cefalù.

Cefalù è un paesino delizioso il cui nucleo antico si sviluppa su una lingua di terra che si tuffa nel mare. Alle spalle un’imponente monte sulla cui cima si trovano i resti della città originaria, visitabili per chi abbia fiato e voglia, visto che ci vuole un’ora di salita per visitarli. Noi ci siamo limitati a percorrere le vie principali, pedonali e ricche di negozietti, ben curate e ricche di fiori. La pioggia non ci ha permesso di ammirare meglio la città ma la vista dall’alto sulla via del ritorno rimarrà sempre impressa nei miei ricordi.

Non ancora sazi di Sicilia, siamo ritornati verso Palermo, abbiamo saltato Mondello visto il cielo cupo, e siamo andati a Sferracavallo, sul lato opposto rispetto a Punta Gallo. Da lì lo sguardo si apre sul mare, sull’isola delle Femmine, e su un sole capace di incendiare il cielo prima di tramontare dietro un promontorio. Siamo riusciti anche a fare una breve passeggiata nella riserva orientata di Capo Gallo, lungo un bel sentiero immerso nella vegetazione, prati in fiore e enormi piante grasse sferzate dal vento. Un incanto, soprattutto perchè eravamo quasi gli unici escursionisti.

Il martedì mattina, prima di raggiungere l’aeroporto, ci siamo concessi una ricca colazione da Spinnato, nella parte ottocentesca di Palermo. Tutta un’altra città, con le strade larghe ed alberate, palazzi ordinati e negozi d’alta moda. Sono riuscita così a vedere almeno dall’esterno il Politeama e il teatro Massimo, al confine tra due delle tante anime di questa città.

E’ stato un viaggio breve ma intenso, ricco di sensazioni ed emozioni, e mi ha lasciato un forte desiderio di tornare presto in questa meravigliosa isola.