SalTO22 – il Salone del Libro di Torino

C’è chi va in India per ritrovare se stesso e chi percorre lunghi cammini a piedi per lasciare spazio ai pensieri di espandersi, poi ci sono io che invece vado al Salone del libro di Torino: ogni volta torno arricchita dall’incontro con gli altri, dalla passione comune condivisa, dall’atmosfera da gita di terza media che toglie un po’ di serietà dalle spalle stanche.

Mentre camminavo verso l’ufficio questa mattina e la quotidianità ricominciava ad apparecchiarsi di fronte a me, riflettevo di come sia un’esperienza che negli anni mi ha aiutato a riconoscere una maggiore complessità: se prima tutto era appiattito sulla stessa frequenza, ogni volta al Salone si aggiungono nuovi toni: bassi, acuti, sgraziati, melodiosi. Si arricchisce anche l’immagine che avevo di me attraverso lo sguardo degli altri: amici cari, conoscenti, persone che stimo o che mi stanno antipatiche a pelle. Il mio pensiero smette di essere statico, non temo più le contraddizioni, rinuncio alle definizioni.

Negli ultimi anni ho scelto di muovermi da sola, senza la stampella emotiva dell’altro. E così ogni Salone è diventato l’occasione per conoscermi, mettermi alla prova. Non potrebbe succedere in un altro posto: l’amore per i libri è tale da travolgermi, supera la paura dell’inadeguatezza, della folla, del timore di essere inopportuna. Il Salone è indipendenza ma non solitudine. Ogni anno la rete di amicizie diventa più fitta, più sicura. Gli ancoraggi più solidi. Per me, che faccio fatica a considerare l’idea che gli altri si possano interessare a me, o volermi bene, è una sfida, è un accettare l’altro e credergli.

In pochi giorni ho camminato trenta chilometri, stretto decine di mani, abbracciato persone alle quali sono davvero affezionata. Ho mangiato a orari improponibili ma mi sono ricordata di farlo, ho preso un taxi perché era troppo tardi anche se avrei preferito camminare, ho litigato con i treni che mi hanno tenuto in ostaggio per ore. Ho scoperto che la liquerizia è l’alleata perfetta contro i cali di pressione mentre la birra, quando fa così caldo da sfocare i contorni, rende lo sguardo più nitido.

Ho ascoltato la mia autrice preferita, Amélie Nothomb, dopo infiniti tentativi di prenotare un posto alla presentazione, e ho pianto per la metà del tempo, per l’emozione di sentirla vicina in certi movimenti della scrittura e del cuore. Ho pianto tanto in generale, sopraffatta da emozioni complesse, ma con una dominante di profonda felicità.

La valigia domenica al ritorno era così piena di libri che si è azzoppata e l’ho trascinata sotto il sole fino alla stazione, sempre fuori tempo ma incredibilmente sempre in orario. Libri di amici, libri in regalo o da regalare, prestiti, romanzi a lungo inseguiti e finalmente trovati.

In questi giorni ho letto post molto belli, brillanti, emozionanti, ricchi di riferimenti e tag alle persone incontrate. Sono convinta che supererei la quota ammessa e questo articolo diverrebbe così lungo che nessuno arriverebbe alla fine, ma che importa? Il tema di quest’anno era cuori selvaggi: è una definizione che si adatta bene a molti di loro, che coglie quello scarto dalla quotidianità che in modi diversi mettiamo in pratica, come speranza di salvezza.

I cuori selvaggi sono quelli di Paolo, prima mentore e ora soprattutto carissimo amico; di Alessandro, un talento enorme che finalmente esplode sulla pagina; di Serena, dalla voce esitante e il cuore fermo, piena di grazia; di Carmelo e Alessandra, i due baresi (lei più di lui) che mi accolgono sempre col sorriso e non finiscono mai di stupirmi; di Gianluigi e Edo, che l’amore per loro è troppo grande per scriverlo; di Alex che è solido e inafferrabile allo stesso tempo; di Christian che scrive con le immagini e usa la macchina fotografica come un microscopio dell’anima; di Angelo e Francesco che mi fanno sempre sentire a casa, dentro e fuori il Salone; di Giovanni che rimane fedele al suo sguardo e alla sua passione; di Silvia e Sara che sono uscite dallo schermo per farsi finalmente abbracciare; dei veneti che ormai hanno colonizzato gli stand e che a volte trascuro perché so che posso rivederli anche se ho bisogno di sapere che ci sono: Enrico, sempre obliquo se non sottosopra, e Federica, rassicurante e ironica controparte; Germana, spumeggiante e acuta, distratta e presente; Giuseppe, la serenità mai scontata; Andrea con cui ci siamo dati il cambio quest’anno ma c’era lo stesso; Lucia dagli occhi raggianti che sorride e brontola allo stesso tempo; Elena che sembra sempre lì per caso ma non si lascia fermare da nulla pur di stare insieme; Alessandra che ha fatto sentire la sua assenza ma sono sicura sarà l’ultima volta.

Guest star si confermano anche quest’anno gli scoiattoli del Valentino mentre la canzone di chiusura non può che essere dei Subsonica che mi hanno accompagnato per tutto il viaggio di ritorno e hanno contribuito a costruire il mio amore mitologico per questa città.

A presto, Torino.

Un altro giorno, un’altra ora, ed un momento

Dentro l’aria sporca il tuo sorriso controvento

Il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco

Tu sei come me

A passi misurati verso un nuovo anno

Fine anno non è mai stato tempo di bilanci, almeno per me. Al massimo mi limito a riguardare le letture fatte, giocare un po’ con le statistiche e mangiare un buon panettone e un buon pandoro, perché mi piacciono entrambi.

Il 2020 è stato un anno singolare, soprattutto a livello collettivo. A livello personale non dico niente, oggi addirittura la terra trema e non so cos’altro potrà succedere nelle prossime ore, ma intorno a me stanno tutti bene e non c’è altro che io possa chiedere, o abbia mai chiesto. So che è molto egoistico: siamo in mezzo a una pandemia e a una crisi climatica quasi irreversibile, e io mi preoccupo solo del sorriso di mia figlia: finché c’è va tutto bene. Un amico ha detto che si scrive anche per accettare l’inevitabile, farsi trovare pronti, almeno un po’. Io penso che il peggio l’ho già passato, il mio carico di dolore è già stato messo sulle spalle e anche se qualche volta è terribilmente pesante, in fondo mi sento allenata.

Quest’anno ho ripreso a correre. Con disciplina, seguendo una tabella di marcia, uscendo con il caldo e il freddo. Ho sempre odiato correre, mi sento più una creatura acquatica. Ma passo dopo passo ho raggiunto la resistenza che mi è sempre mancata, ho comprato un buon paio di scarpe e ho spento la musica, ho aggiunto minuti e metri e adesso arrivo a correre sette chilometri, ma non mi fermo. Quel momento solo per me, in cui mi sento padrona dei miei movimenti, con i muscoli del corpo reattivi, in perfetto collegamento corpo e mente, quando la mente è sempre stata lanciata più avanti del corpo che la seguiva spossato, mentre ora procedono insieme, più leggeri. Seguire un obiettivo, senza fretta, senza ansie, correre per correre, tornare a casa con la faccia arrossata, buttarsi in doccia e poi sentirmi piena di energia, l’apatia e la tristezza sciolte nel sudore, sconfitte, almeno per un po’.

Sono progetti quelli di cui ho bisogno, e legami. Non è semplice mantenere i legami se non puoi uscire di casa, se lavori, tanto, e poi torni a casa e c’è ancora tanto da fare e poi è subito notte. Ma ci sono le passioni e quando si ha la fortuna di trovare qualcuno con cui condividerle, sei benedetto, perché ti ritornano a ondate, anche quando non ce la fai, e ti mostrano nuove rotte, e ti ascoltano e ascolti o taci e sono ancora lì, ad aspettarti. Non so cosa sarei senza le persone che continuo a incontrare e scoprire e tenere con me grazie ai libri. Tanto sola probabilmente. E meno povera, vista la quantità di nuove letture che saltano fuori in continuazione e che bisogna proprio che legga. Ma non mi è mai interessato accumulare grandi ricchezze, grandi biblioteche piuttosto, quelle sì.

Esperimenti di libertà

Quando le parole sembrano troppo deboli per reggere l’architettura di sentimenti e pensieri, quando il silenzio attorno è opprimente come due mani a stringere le tempie, quando sembra difficile sopravvivere al giorno e non si vuole guardare al domani, cerco il conforto delle piccole cose.

Abbasso lo sguardo e lo lancio oltre i confini delle paure.

Cerco nuove abitudini. Mi sottraggo.

Costruisco ponti tibetani verso nuove sponde, mi allontano; a volte ritorno.

Intesso delicate ragnatele di parole per poi stralciarle con gesto nervoso.

Ritorno all’acqua, all’aria, alla terra. Alla pelle.

Cerco rifugio tra i libri, ma non sempre mi sento accolta.

Cerco di scrivere nuove storie ma dentro c’è ancora troppa polvere.

Aspetto la parola che mi salvi. E cerco di non trattenere troppo il respiro.

Non c’è spazio per la paura

In questi giorni strani, in cui il mondo attorno a noi si cristallizza e una alla volta vengono meno le nostre certezze, le nostre libertà, non trova spazio in me la paura. Anche se preme da tutti i fronti per entrare, per superare la barriera cellulare che mi avvolge, il nucleo resta intatto, integro.

La pandemia interessa tutto il mondo, eppure questa minaccia globale può essere vissuta solo in modo personale: c’è chi lavora strenuamente da settimane in ospedale o negli ambulatori, chi è costretto a stare a casa in quarantena, chi è obbligato a lavorare come sempre, addirittura di più. Di certo la libertà che pensavamo di avere si è rivelata fragile in una maniera insospettabile, dolorosa. I nostri ritmi vengono modificati, le nostre abitudini stravolte, ci aggrappiamo a brandelli di normalità per paura di perdere noi stessi.

Questa epidemia, i cui echi lontani avevano già iniziato a nutrire l’ansia di molti, si è mangiata il nostro futuro: l’incertezza e la precarietà sono i sentimenti che più di tutti ci accomunano. Ma anche se ci sentiamo confusi e frastornati, la voglia di reagire, di riprendere il controllo sulla nostra vita, si manifesta ogni giorno in maniera diversa: obbedendo ciecamente alle regole o disattendendole, credendosi superiori a esse; sentendosi invincibili o immensamente fragili; creando nuove forme di socialità o isolandosi; esprimendo scelte quando sembra che scelte non ce ne siano rimaste.

In queste settimane ho sperimentato, nell’ordine, la negazione del problema, una sensazione di panico diffusa e infine la rimozione. Di certo trovarmi con la scuola di mia figlia chiusa, una scadenza fondamentale a lavoro che richiede tutto il mio tempo e concentrazione, mi ha aiutato a fare finta che il problema non mi riguardi, solo una difficoltà in più da affrontare ogni giorno per arrivare a sera. Mi chiedo come starei se fossi costretta a restare chiusa in casa da settimane, come cambierebbe il mio stato d’animo, il mio modo di ragionare. Io sono un animale sociale: mi nutro di relazioni, di parole scritte, di immagini condivise. Ma sento forte anche il contatto con la terra: la primavera che brulica è una sirena il cui canto mi seduce e mi fermo a guardare ogni fiore, ogni ramo, ogni gatto che passa. Non posso permettermi di abbandonarmi alla disperazione, al panico: non saprei come uscirne. E allora evito ogni notizia maligna, triste, realistica; scorro alla ricerca di stralci di bellezza; cerco il buffo, il tenero, l’amore. La mia armatura è fatta di affetto, sorrisi e parole care che rimbalzano da una casa all’altra, da una nazione all’altra; è il mio nipotino che ha spento la sua prima candelina mentre noi gli cantavamo tanti auguri in videochiamata; è la mia cara amica che ha dovuto partorire da sola lontana da qui ma a cui abbiamo tenuto la mano per giorni, in una catena di messaggi di affetto; è mia figlia che si aggrappa alla gatta in cerca di un’amicizia bambina e ogni giorno ci stringe con infinito amore; sono le chiacchiere con le amiche e gli amici scrittori, in cui si fa a gara per strappare un sorriso o portare una notizia felice; è mia madre che fa della sua serenità una roccia a cui appoggiarsi nei momenti di stanchezza; è leggere un post su facebook di una scrittrice che ammiri che ti tocca nel profondo; è trovare in un libro le montagne che ami; è ascoltare una musica nuova che ti porta lontano; è scoprire che sì, la vita è più difficile, ma puoi trovare ancora qualcosa di prezioso ogni giorno, basta cercare, basta pretenderlo, basta non arrendersi.

L’epidemia finirà, la quarantena anche, inizierà una normalità, forse diversa da quella a cui eravamo abituati, ma sta a noi decidere come reagire, cosa trattenere di questi giorni e cosa lasciare andare via, lontano.