Quando le parole sembrano troppo deboli per reggere l’architettura di sentimenti e pensieri, quando il silenzio attorno è opprimente come due mani a stringere le tempie, quando sembra difficile sopravvivere al giorno e non si vuole guardare al domani, cerco il conforto delle piccole cose.
Abbasso lo sguardo e lo lancio oltre i confini delle paure.
Cerco nuove abitudini. Mi sottraggo.
Costruisco ponti tibetani verso nuove sponde, mi allontano; a volte ritorno.
Intesso delicate ragnatele di parole per poi stralciarle con gesto nervoso.
Ritorno all’acqua, all’aria, alla terra. Alla pelle.
Cerco rifugio tra i libri, ma non sempre mi sento accolta.
Cerco di scrivere nuove storie ma dentro c’è ancora troppa polvere.
Aspetto la parola che mi salvi. E cerco di non trattenere troppo il respiro.
In questi giorni strani, in cui il mondo attorno a noi si cristallizza e una alla volta vengono meno le nostre certezze, le nostre libertà, non trova spazio in me la paura. Anche se preme da tutti i fronti per entrare, per superare la barriera cellulare che mi avvolge, il nucleo resta intatto, integro.
La pandemia interessa tutto il mondo, eppure questa minaccia globale può essere vissuta solo in modo personale: c’è chi lavora strenuamente da settimane in ospedale o negli ambulatori, chi è costretto a stare a casa in quarantena, chi è obbligato a lavorare come sempre, addirittura di più. Di certo la libertà che pensavamo di avere si è rivelata fragile in una maniera insospettabile, dolorosa. I nostri ritmi vengono modificati, le nostre abitudini stravolte, ci aggrappiamo a brandelli di normalità per paura di perdere noi stessi.
Questa epidemia, i cui echi lontani avevano già iniziato a nutrire l’ansia di molti, si è mangiata il nostro futuro: l’incertezza e la precarietà sono i sentimenti che più di tutti ci accomunano. Ma anche se ci sentiamo confusi e frastornati, la voglia di reagire, di riprendere il controllo sulla nostra vita, si manifesta ogni giorno in maniera diversa: obbedendo ciecamente alle regole o disattendendole, credendosi superiori a esse; sentendosi invincibili o immensamente fragili; creando nuove forme di socialità o isolandosi; esprimendo scelte quando sembra che scelte non ce ne siano rimaste.
In queste settimane ho sperimentato, nell’ordine, la negazione del problema, una sensazione di panico diffusa e infine la rimozione. Di certo trovarmi con la scuola di mia figlia chiusa, una scadenza fondamentale a lavoro che richiede tutto il mio tempo e concentrazione, mi ha aiutato a fare finta che il problema non mi riguardi, solo una difficoltà in più da affrontare ogni giorno per arrivare a sera. Mi chiedo come starei se fossi costretta a restare chiusa in casa da settimane, come cambierebbe il mio stato d’animo, il mio modo di ragionare. Io sono un animale sociale: mi nutro di relazioni, di parole scritte, di immagini condivise. Ma sento forte anche il contatto con la terra: la primavera che brulica è una sirena il cui canto mi seduce e mi fermo a guardare ogni fiore, ogni ramo, ogni gatto che passa. Non posso permettermi di abbandonarmi alla disperazione, al panico: non saprei come uscirne. E allora evito ogni notizia maligna, triste, realistica; scorro alla ricerca di stralci di bellezza; cerco il buffo, il tenero, l’amore. La mia armatura è fatta di affetto, sorrisi e parole care che rimbalzano da una casa all’altra, da una nazione all’altra; è il mio nipotino che ha spento la sua prima candelina mentre noi gli cantavamo tanti auguri in videochiamata; è la mia cara amica che ha dovuto partorire da sola lontana da qui ma a cui abbiamo tenuto la mano per giorni, in una catena di messaggi di affetto; è mia figlia che si aggrappa alla gatta in cerca di un’amicizia bambina e ogni giorno ci stringe con infinito amore; sono le chiacchiere con le amiche e gli amici scrittori, in cui si fa a gara per strappare un sorriso o portare una notizia felice; è mia madre che fa della sua serenità una roccia a cui appoggiarsi nei momenti di stanchezza; è leggere un post su facebook di una scrittrice che ammiri che ti tocca nel profondo; è trovare in un libro le montagne che ami; è ascoltare una musica nuova che ti porta lontano; è scoprire che sì, la vita è più difficile, ma puoi trovare ancora qualcosa di prezioso ogni giorno, basta cercare, basta pretenderlo, basta non arrendersi.
L’epidemia finirà, la quarantena anche, inizierà una normalità, forse diversa da quella a cui eravamo abituati, ma sta a noi decidere come reagire, cosa trattenere di questi giorni e cosa lasciare andare via, lontano.
Ogni anno mi piace leggere le tracce del tema di maturità, pensare a quale avrei scelto e sorridere al pensiero che quel tempo è passato e anche nei sogni ormai non si ripresenta più.
Quest’anno però penso alla mia maturità con più affetto: sono passati vent’anni, una nuova riforma che scombina le carte proprio come allora, Ungaretti e una sua poesia come traccia. Noi avevamo trovato I fiumi da analizzare, oggi Risvegli. Mi ricordo l’estrema agitazione di quei giorni, l’insicurezza, un diffuso senso di paura. Poi gli esami, gli esiti, delusioni e arrabbiature, palesi ingiustizie, qualche giusto merito e finalmente l’università, un mondo nuovo dove ricominciare.
La maturità ha segnato una cesura importante nella mia vita e mi ha permesso di abbandonare il liceo per sempre, anni difficili a livello emotivo, che ancora non riesco a ricordare con distacco.
Uno dei ricordi più belli di quei giorni è legato proprio alla prima prova. Dopo l’incertezza iniziale le parole hanno iniziato a correre da sole: mi è piaciuto analizzare il testo, studiarlo, interpretarlo, esprimere un’opinione che era solo mia e si reggeva su basi solide, costruite negli anni. Non conoscevo quella poesia in particolare, ma l’ermetismo mi era particolarmente caro, e allora avevo una conoscenza della letteratura profonda, grazie a una scuola eccellente da questo punto di vista.
Quando poi ho saputo l’esito della prova, comunicatomi con soddisfazione dal commissario esterno di italiano, ecco, lì si sono sciolti anni di amarezza, in cui avevo perso ogni fiducia nella mia scrittura, nella mia sensibilità e capacità di comprensione, distrutta con sistematicità da una docente che non capivo e non mi apprezzava, e che tanto male ha fatto a me e ad altri, sempre con il sorriso sulle labbra e una parola crudele pronta.
Se mi sforzo posso ricordare altro di quei giorni: il caldo terribile, la tesina (chissà su che argomento era), le telefonate concitate, il vestito lungo per l’orale, le settimane di sconforto per il mio senso di giustizia offeso. Ma ora, dopo vent’anni, su tutto brilla la felicità di quella prima prova perfetta, del volto sorridente del commissario che tutti temevamo e che aveva giudicato il mio testo senza avermi mai incontrato prima, puro da pregiudizi.
Così, ora che c’è una giusta distanza, ora che ho lasciato cadere gran parte dell’amarezza di quegli anni, ho deciso di tenermi stretti solo i ricordi più belli e le amicizie più care, che non sarebbero cresciute così resistenti al logorio del tempo in un ambiente meno ostile.
Le date hanno sempre rappresentato per la mia memoria uno scoglio piuttosto viscido. Quando credo di avere un aggrappo sicuro, un’onda più infida delle altre mi ripiomba nell’ignoranza: i numeri si confondono, si alternano, si scambiano di posto, si nascondono o fingono di essere qualcun altro. A parte qualche riferimento che emerge come una cima tra le nebbie (1492 – 1789 – 15/18) il resto si perde, con mio sommo fastidio tra l’altro, soprattutto se penso a tutte le ore della mia vita spese in una lotta impari.
Per le ricorrenze la situazione è piuttosto simile: ricordo qualche compleanno, qualche anniversario, ma solo se lo tengo in vita, se me lo ripeto tra me e me, in una cantilena che assomiglia al rosario di preghiere dei maggi della mia infanzia. Per dire, ho ancora qualche incertezza nel ricordare la data esatta di nascita di mia figlia, ma conto che con gli anni (e i moduli da compilare) diventerà un κτῆμα ἐς αἰεί (un possesso per sempre, come diceva la Bresolin, la mia prof. di greco del liceo, e prima di lei il signor Tucidide).
Un data che invece non riesco a scordare, che mi si è infilata sotto pelle come una zecca e si gonfia e pulsa a mano a mano che si avvicina, che continua ad avvelenarmi il sangue, anche se ogni anno sono sicura di essere diventata immune (e di certo un po’ lo sono diventata, o forse sono solo rassegnata a questa malattia ciclica, un po’ come un’allergia o un’influenza stagionali), un data, dicevo, facile da ricordare è oggi: dieci del dieci. E oggi, per il ventisettesimo anno consecutivo, maledico questo giorno. E, ancora una volta, ci dedico un post su un blog. Perché scrivere è cercare di dare una forma al guazzabuglio che ho dentro.
Oggi prevale la rabbia, per tutto quello che poteva esserci e non c’è stato. Per il mio animo sbilenco. Per l’assenza che è presenza, costante. Perché preferisco essere arrabbiata che piangere altre lacrime. In attesa di un’accettazione serena che prima o poi si deciderà ad abitare stabilmente dentro di me.