Il labirinto più grande del mondo è in provincia di Parma

Il labirinto ha sempre affascinato l’uomo. Già nelle caverne preistoriche se ne trovano antiche tracce e tutti conosciamo il mito di Arianna, Teseo e il Minotauro. Forse non tutti sanno invece che il labirinto più grande del mondo si trova in Italia, a Fontanellato, in provincia di Parma.

Fortemente voluto da Franco Maria Ricci (1937-2020), architetto, editore, collezionista, il labirinto della Masone si estende per otto ettari nella campagna emiliana.

Si tratta di un luogo metafisico in cui ampie strutture in mattoni abbracciano e si fanno abbracciare da viali di bambù, oltre duecento specie diverse, in un dialogo costante tra natura, uomo e arte.

Superato il primo cortile, si accede al percorso labirintico, di tipo romano ad angoli retti, racchiuso dentro una forma a stella. I sentieri sono pavimentati in calcestruzzo, in ombra dove crescono i bambù più alti, e il percorso si sviluppa sui quattro lati di una struttura centrale, un secondo cortile dominato da una piramide all’interno della quale c’è una cappella.

Diversi pannelli sulla storia dei labirinti e del proprietario si alternano a opere d’arte vegetali, simili a quelle che si possono trovare ad Arte Sella, altro sito museale all’aperto che cerca un dialogo tra arte e natura.

La possibilità di perdersi in questo bosco dal sapore orientale è concreta ma piacevole. C’è la sicurezza di essere recuperati in caso di bisogno (ci sono numeri di riferimento in alcuni punti significativi del percorso) e il leggero spaesamento di non avere coordinate, di non essere rintracciabili, in una società come quella di oggi in cui possiamo orientarci in luoghi mai visti grazie alle informazioni satellitari.

La soluzione del labirinto è intuitiva senza essere troppo semplice e la passeggiata gradevole in questo verde ammansito ma non del tutto domestico.

La scelta del bambù invece del bosso, comunemente usato nei labirinti privati delle ville, è dovuto anche alla sua velocità di crescita: il labirinto del Maseno è aperto dal 2015, pochi anni dopo la sua realizzazione.

Curiosità e scoperta dominano la visita del parco e delle collezioni della fondazione Franco Maria Ricci, specchio di un animo eclettico, appassionato di arte e fondatore della rivista FMR, oltre che editore di alcune collane raffinate.

All’interno dell’impianto museale è disponibile non solo la collezione artistica del fondatore, ma anche la sua biblioteca personale e una galleria con tutte le pubblicazioni della sua casa editrice, liberamente consultabili.

Interessante notare i continui rimandi tra le opere raccolte e quelle pubblicate, in una coerenza interna che affascina.

Tra i tanti, mi ha colpito trovare numerosi riferimenti e connessioni con Italo Calvino e Jorge Luis Borges. Soprattutto il secondo pervade con il suo spirito tutta l’opera. È lo stesso Franco Maria Ricci a dire:

Sognai per la prima volta di costruire un Labirinto circa trent’anni fa, nel periodo in cui, a più riprese, ebbi ospite, nella mia casa di campagna vicino a Parma, un amico, oltreché collaboratore importantissimo della casa editrice che avevo fondato: lo scrittore argentino Jorge Luis Borges.

Il Labirinto, si sa, era da sempre uno dei suoi temi preferiti; e le traiettorie che i suoi passi esitanti di cieco disegnavano intorno a me mi facevano pensare alle incertezze di chi si muove fra biforcazioni ed enigmi.

Credo che guardandolo, e parlando con lui degli strani percorsi degli uomini, si sia formato il primo embrione del progetto che finalmente, nel giugno del 2015, ho aperto al pubblico.

La visita a questo giardino si è trasformata in un percorso nella storia, nella letteratura e nell’arte, e mi ha lasciato molte suggestioni e molte domande, come solo le migliori storie sanno fare.

SalTO22 – il Salone del Libro di Torino

C’è chi va in India per ritrovare se stesso e chi percorre lunghi cammini a piedi per lasciare spazio ai pensieri di espandersi, poi ci sono io che invece vado al Salone del libro di Torino: ogni volta torno arricchita dall’incontro con gli altri, dalla passione comune condivisa, dall’atmosfera da gita di terza media che toglie un po’ di serietà dalle spalle stanche.

Mentre camminavo verso l’ufficio questa mattina e la quotidianità ricominciava ad apparecchiarsi di fronte a me, riflettevo di come sia un’esperienza che negli anni mi ha aiutato a riconoscere una maggiore complessità: se prima tutto era appiattito sulla stessa frequenza, ogni volta al Salone si aggiungono nuovi toni: bassi, acuti, sgraziati, melodiosi. Si arricchisce anche l’immagine che avevo di me attraverso lo sguardo degli altri: amici cari, conoscenti, persone che stimo o che mi stanno antipatiche a pelle. Il mio pensiero smette di essere statico, non temo più le contraddizioni, rinuncio alle definizioni.

Negli ultimi anni ho scelto di muovermi da sola, senza la stampella emotiva dell’altro. E così ogni Salone è diventato l’occasione per conoscermi, mettermi alla prova. Non potrebbe succedere in un altro posto: l’amore per i libri è tale da travolgermi, supera la paura dell’inadeguatezza, della folla, del timore di essere inopportuna. Il Salone è indipendenza ma non solitudine. Ogni anno la rete di amicizie diventa più fitta, più sicura. Gli ancoraggi più solidi. Per me, che faccio fatica a considerare l’idea che gli altri si possano interessare a me, o volermi bene, è una sfida, è un accettare l’altro e credergli.

In pochi giorni ho camminato trenta chilometri, stretto decine di mani, abbracciato persone alle quali sono davvero affezionata. Ho mangiato a orari improponibili ma mi sono ricordata di farlo, ho preso un taxi perché era troppo tardi anche se avrei preferito camminare, ho litigato con i treni che mi hanno tenuto in ostaggio per ore. Ho scoperto che la liquerizia è l’alleata perfetta contro i cali di pressione mentre la birra, quando fa così caldo da sfocare i contorni, rende lo sguardo più nitido.

Ho ascoltato la mia autrice preferita, Amélie Nothomb, dopo infiniti tentativi di prenotare un posto alla presentazione, e ho pianto per la metà del tempo, per l’emozione di sentirla vicina in certi movimenti della scrittura e del cuore. Ho pianto tanto in generale, sopraffatta da emozioni complesse, ma con una dominante di profonda felicità.

La valigia domenica al ritorno era così piena di libri che si è azzoppata e l’ho trascinata sotto il sole fino alla stazione, sempre fuori tempo ma incredibilmente sempre in orario. Libri di amici, libri in regalo o da regalare, prestiti, romanzi a lungo inseguiti e finalmente trovati.

In questi giorni ho letto post molto belli, brillanti, emozionanti, ricchi di riferimenti e tag alle persone incontrate. Sono convinta che supererei la quota ammessa e questo articolo diverrebbe così lungo che nessuno arriverebbe alla fine, ma che importa? Il tema di quest’anno era cuori selvaggi: è una definizione che si adatta bene a molti di loro, che coglie quello scarto dalla quotidianità che in modi diversi mettiamo in pratica, come speranza di salvezza.

I cuori selvaggi sono quelli di Paolo, prima mentore e ora soprattutto carissimo amico; di Alessandro, un talento enorme che finalmente esplode sulla pagina; di Serena, dalla voce esitante e il cuore fermo, piena di grazia; di Carmelo e Alessandra, i due baresi (lei più di lui) che mi accolgono sempre col sorriso e non finiscono mai di stupirmi; di Gianluigi e Edo, che l’amore per loro è troppo grande per scriverlo; di Alex che è solido e inafferrabile allo stesso tempo; di Christian che scrive con le immagini e usa la macchina fotografica come un microscopio dell’anima; di Angelo e Francesco che mi fanno sempre sentire a casa, dentro e fuori il Salone; di Giovanni che rimane fedele al suo sguardo e alla sua passione; di Silvia e Sara che sono uscite dallo schermo per farsi finalmente abbracciare; dei veneti che ormai hanno colonizzato gli stand e che a volte trascuro perché so che posso rivederli anche se ho bisogno di sapere che ci sono: Enrico, sempre obliquo se non sottosopra, e Federica, rassicurante e ironica controparte; Germana, spumeggiante e acuta, distratta e presente; Giuseppe, la serenità mai scontata; Andrea con cui ci siamo dati il cambio quest’anno ma c’era lo stesso; Lucia dagli occhi raggianti che sorride e brontola allo stesso tempo; Elena che sembra sempre lì per caso ma non si lascia fermare da nulla pur di stare insieme; Alessandra che ha fatto sentire la sua assenza ma sono sicura sarà l’ultima volta.

Guest star si confermano anche quest’anno gli scoiattoli del Valentino mentre la canzone di chiusura non può che essere dei Subsonica che mi hanno accompagnato per tutto il viaggio di ritorno e hanno contribuito a costruire il mio amore mitologico per questa città.

A presto, Torino.

Un altro giorno, un’altra ora, ed un momento

Dentro l’aria sporca il tuo sorriso controvento

Il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco

Tu sei come me

Nebbia di pianura

La nebbia si è fermata a mezz’aria, simile a una nube umida e pesante, incerta se fermarsi sopra le cime degli alberi o scendere ad abbracciare i campi. Sai già che oltre la linea dei colli il sole splende freddo a illuminare il mare della pianura, mentre qui, sotto, resta un buio grigio e ostile, così diverso dalla nebbia bianca e consistente delle ultime sere, simile a ovatta che va a riempire ogni interstizio, a gomma che cancella i lineamenti del paesaggio e ne modifica i suoni e gli odori.

La nebbia di oggi è alta e disperde desolazione sulle case di periferia. Mentre cammini con passo ostinato nel nuovo anno, le cuffie nelle orecchie, le mani in tasca, senti le particelle d’acqua attraversare i vestiti. Sei sola mentre lasci alle spalle il bar, la chiesa, il campo da calcio, e i passi ti portano attraverso gli ultimi campi, verso l’argine, verso l’acqua che sempre ti chiama.

Solo un paio di giorni fa guardavi un mare simile a un lago, le onde pigre allungate sulla lunga spiaggia, la piccola chiesa in punta illuminata dai raggi obliqui del sole, il cielo percorso senza sosta da nuvole lunghe e poi a ciuffi, di un azzurro polveroso che verso sera si è accesso di rosa e arancio, arrossendo insieme al mare.

Oggi invece sei scesa dall’argine, affondando nel tappeto di foglie morbide fino all’acqua stanca, alta, costretta tra arbusti spogli e pareti di erba grigia. La luce e l’acqua si raccontano antiche canzoni, senti la tristezza che afferra le caviglie, la fissi per un lungo istante e poi te ne allontani.

Un piccolissimo pettirosso saltella tra i rami bassi, il cuore di ruggine appena visibile; due scoiattoli grigi attraversano la strada a scatti; uno stormo di piccioni si alza insieme da un campo in completo silenzio o forse è solo la musica che copre ogni rumore, che detta il passo, che solleva il cuore.

Manca tra le case desolate il profumo del calicantus, le gemme stanno ancora strette sui rami, e ti perdi tra le strade chiuse e i capitelli votivi, l’argine lasciato alle spalle, in un quartiere di piccoli lotti con sgraziati condomini e piccole case dai giardini dimenticati, il selciato sconnesso, le murette storte.

Ogni tanto in un giardino resiste il rosso di un bocciolo di rosa, ogni profumo perso nello sforzo del colore. Le luci natalizie riposano spente in un mezzogiorno che sembra sera, decorazioni e vecchi fiocchi azzurri appassiscono nel silenzio, una donna su un balcone parla al telefono, in mano una sigaretta.

Ritrovi la strada di casa, tortuosa come una biscia lasciata libera in un campo, ti fermi al cimitero militare, attraversi la terra fangosa che risucchia il passo, cerchi ancora storie. Nel registro dei visitatori ci sono solo gli ultimi due mesi: Mestrino, Svizzera, Australia, Vicenza. Scorri i pensieri di chi si è fermato ma non lasci il tuo. Ci sono i nipoti di uno dei caduti, cerchi il suo nome nel registro del cimitero, trovi la sua tomba, ventiquattro anni, pilota della RAF, abbattuto in volo. Pensi al tempo, alle tue cure. Nessuna grandezza ma ancora vita. Torni a casa.

Esperimenti di libertà

Quando le parole sembrano troppo deboli per reggere l’architettura di sentimenti e pensieri, quando il silenzio attorno è opprimente come due mani a stringere le tempie, quando sembra difficile sopravvivere al giorno e non si vuole guardare al domani, cerco il conforto delle piccole cose.

Abbasso lo sguardo e lo lancio oltre i confini delle paure.

Cerco nuove abitudini. Mi sottraggo.

Costruisco ponti tibetani verso nuove sponde, mi allontano; a volte ritorno.

Intesso delicate ragnatele di parole per poi stralciarle con gesto nervoso.

Ritorno all’acqua, all’aria, alla terra. Alla pelle.

Cerco rifugio tra i libri, ma non sempre mi sento accolta.

Cerco di scrivere nuove storie ma dentro c’è ancora troppa polvere.

Aspetto la parola che mi salvi. E cerco di non trattenere troppo il respiro.