Un naufragio. Romanzo di avventura e di coppia di Daniele Pasquini

La settimana scorsa sono stata alla presentazione di Daniele Pasquini al festival Arcella Bella, un punto d’incontro estivo nel parco Milcovich di Padova. Il libro lo avevo già letto a metà, incuriosita da una breve recensione, ed ero curiosa di ascoltare l’autore.

Uno tra gli aspetti più stimolanti di leggere letteratura contemporanea (e in gran parte italiana) è, infatti, quello di poter conoscere autori che ci piacciono e indagare il loro punto di vista sulla scrittura. Tra presentazioni, festival letterari, interviste e presenze social, lo scrittore esce da dietro il libro e può avviare un dialogo (o un monologo) con i suoi lettori.

Per alcuni, autore e opera dovrebbero essere sempre disgiunti, forse perché potrebbe mettere in imbarazzo apprezzare il lavoro letterario di una persona dai comportamenti o pensieri socialmente riprovevoli; una forma di censura che non sento di condividere. Il mio approccio però parte sempre dall’opera e ho notato che spesso gli autori che apprezzo su carta incontrano le mie simpatie anche di persona. Non sempre vale il contrario ma non me ne cruccio.

A Padova, città universitaria e dalle molte librerie, indipendenti o meno, le occasioni di ascoltare un autore sono infinite. L’unico ostacolo è il tempo (e la salvaguardia del portafogli) ma quando riesco a organizzarmi è sempre un bel momento da cui torno arricchita, come lettrice e come persona. Non sono una collezionista di dediche (tranne quelle di Sio per mia figlia) ma ne ho chiesto con piacere una a Daniele sia per il piacere di aver ascoltato il suo accento toscano, sia perché ha dato la sua risposta a una domanda su cui mi interrogo da tempo: si può – e in che modo – parlare di amore romantico in un romanzo senza risultare banali o stucchevoli?

Sulle prime sottovalutarono quell’incontro. Era stato bello potersi confidare, ma nessuno dei due gli dava peso. Forse perché le storie d’amore – quando vengono raccontate – cominciano sempre con una scintilla, con un gesto romantico, con attenzioni e piccole prove di felicità, con due persone che sono disposte fin da subito a calare sul tavolo le carte migliori, a tirar fuori tutto l’armamentario del corteggiamento. Nessuno dei due pensava che un amore potesse iniziare così, sbandando per caso, senza difese con cui coprire la ritirata. E invece un’intuizione comune rivelò loro che avrebbero potuto provare a salvarsi a vicenda, a trasformare due vite false in una vita vera.

La soluzione scelta da Daniele Pasquini è quella di unire due generi, avventura e amore, e farne un romanzo letterario in cui la domanda principale alla quale cerchiamo risposta è se i due protagonisti si salveranno.

L’incipit è molto bello e parte con un catalogo di coppie, scoppiate per i motivi che più o meno conosciamo tutti, volenti o nolenti. Già nelle prime pagine si scopre così una delle cifre stilistiche dell’autore: cogliere l’ironia anche nelle situazioni più dolorose (tratto tipico toscano, ci ha rivelato) e far esplodere momenti di intensa tenerezza.

Tutto il romanzo, infatti, è un susseguirsi armonioso di dolore e piccole gioie, fatica e risate, serietà e volgarità. Come è poi la vita, anche se in maniera più disastrata.

Un naufragio parla di una coppia, Tommaso e Valentina, appena sposati e già in crisi. Il viaggio di nozze alle Seychelles, una soluzione di comodo che in realtà non entusiasmava nessuno dei due, è giunto al termine e devono solo raggiungere l’aeroporto principale con un breve volo privato su un piccolo aeromobile. Che precipita. I due si salvano e approdano su un’isola disabitata dove si trovano in completa balia della natura e dei loro nervi. La narrazione si sposta ora su uno ora sull’altra protagonista, con spostamenti temporali dal presente dell’isola alla genesi della loro storia d’amore.

La lettura procede avvincente e, a mano a mano che l’autore li mette di fronte alle difficoltà e ai loro limiti, ha il pregio di conferire sempre più spessore ai due personaggi, fino a renderli persone, attingendo a quel bagaglio di errori e speranze che un po’ tutti condividiamo quando si parla di sentimenti.

Nonostante le infinite interruzioni (uno dei motivi per i quali le mie letture sono drasticamente calate di numero quest’anno) Pasquini ha saputo tenermi avvinta alla sua storia e mi sono trovata a sottolineare paragrafi interi, intenerita e commossa da questa continua ricerca di salvezza che mi sento di condividere.

Un naufragio di Daniele Pasquini. SEM edizioni. 2022

Restiamo così quando ve ne andate – Cristò

Restiamo così quando ve ne andate è il terzo romanzo di Cristò che leggo. Prima sono venuti La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, sempre per Terrarossa edizioni, e La carne, nella nuova edizione Neo.

Capita sempre infatti che quando incontro un autore che mi colpisce – per stile, per voce e per universo narrativo – con pazienza inizio a leggere tutte le sue opere, sperando di ritrovare e individuare quei caratteri che lo rendono unico e che rendono così speciale la sua lettura.

Non sono ancora sicura di aver compreso tutti gli ingredienti dell’incantesimo narrativo di Cristò, ma di certo so che è in grado di individuare quegli elementi che a un tratto, spesso all’improvviso, superano il confine letterario per arrivare dritti in qualche punto vitale dell’anima e farla vibrare.

E succede così che la lenta costruzione del personaggio di Francesco, che ci parla in prima persona nelle prime tre parti del libro (giorni, ore, mesi), ci tenga avvinghiati alla narrazione con spirali sempre più larghe che partono da uno di infiniti spinelli nella stanza delle esperienze estatiche e ipnotiche, da un uomo di quarant’anni che cerca di sfuggire alla disperazione di una vita che non ha deciso, distraendosi con hashish e social network. Il protagonista potrebbe sembrare il solito inetto alla vita, ma a poco a poco, tra le volute di fumo, si delinea un carattere integro, con una forte consapevolezza, schiacciato da un destino che lo sovrasta. Anche in questo romanzo di Cristò torna il tema politico, la sensibilità alla realtà attuale, che entra di sguincio e poi diventa elemento cardine della narrazione, senza manifesti ma con solo la forza dei suoi effetti sui personaggi.

Io non ho quasi più nulla di pulito: non sono puliti i miei vestiti, non è pulita la casa in cui vivo, non è pulito il cibo che mangio, non è pulito il sesso che faccio, non sono puliti i miei polmoni, non è pulita la musica che suono, non sono pulite le soluzioni che riesco a immaginare. Dovrei fare un bagno nella varechina e appendermi sui fili di ferro a far sgocciolare la sporcizia.

A fare da contrappunto alla voce di Francesco, c’è una prima persona plurale femminile, all’inizio indefinita e che poi prende sempre più spazio e forma, fino a occupare tutta la quarta parte, ridisegnando la storia che avevamo imparato a conoscere e che dà il titolo al romanzo.

Non possiamo fare altro che aspettare in silenzio quando ve ne andate. Non possiamo che tornare nel letargo della vostra assenza. Possiamo fare solo così. Sappiamo che non tornerete, ma anche che tra qualche tempo non ci ricorderemo più di voi.

Si tratta di una presenza costante, appena inquietante, dall’aspetto minaccioso ma con una tenerezza profonda, simile ai fantasmi e agli zombie di altre opere dell’autore. Mi chiedo così cosa sia davvero il fantasma per Cristò, questa presenza irreale che sa influire sulla realtà in maniera decisiva, questo elemento che ricorda il realismo magico, familiare eppure sconosciuto. Non credo sia solo un artificio narrativo, quanto una lente con cui guardare il mondo, agirlo e trovare nuove parole per descriverlo.

E le parole che usa Cristò sono sempre esatte, misurate, descrittive. La lettura scorre ritmata, veloce, a 87 battiti al minuto, appena più veloce di un sano battito cardiaco, come viene ripetuto più volte parlando dei ritmi della musica e dell’amore. Perché altri due temi fondamentali di questo romanzo sono la musica – Francesco è un pianista, un compositore, come lo è anche l’autore – e l’amore – di Francesco e Monica, Monica e Giulio, Francesco e Fatima. Cristò è bravissimo a scrivere di amori struggenti, complessi, impossibili per i tempi malaccordati, e ci innamora insieme ai suoi personaggi. La musica poi diventa nel corso del romanzo un elemento sempre più essenziale per il protagonista, ed è sempre bello quando uno scrittore riesce a metterla in parole (penso anche ad Andrea Tarabbia con Madrigale senza suono) e mi rendo conto una volta di più di quanta bravura ci voglia per far sentire a chi legge, per trasformare la complessità di una partitura in narrazione, cosa che a Cristò riesce benissimo.

Verso la fine Francesco ritorna alla sua ossessione che ci sia qualcuno che stia scrivendo la sua storia (un gioco metaletterario che ricorre più volte nel romanzo) e ne immagina i diversi finali. Tra i tanti, l’ultimo dice così:

Finale numero cinque: potrei fare l’amore con Fatima sempre più spesso, mandare all’aria tutti i progetti con Monica, chiudermi in casa a scrivere musica, a dare corpo alla Creatura. Sarebbe un finale prevedibile, sarebbe un finale bellissimo. Invece la verità è che continuo a stare inerte in questa casa fatta di stanze che continuo a battezzare con nuovi nomi, ma che era qui prima di Fatima, di Monica, di me e che ci sarà anche dopo tutti noi. Questa è una vita qualsiasi in una casa qualsiasi. Non fa bene e non fa male; questi fatti non sono buoni né cattivi. Qui le cose succedono e non c’è niente da fare.

Ma se volete sapere come finisce veramente il romanzo, dovete leggerlo.

Restiamo così quando ve ne andate (2018) di Cristò per Terrarossa Edizioni.

Chi se non noi – esordio di Germana Urbani per nottetempo

Cosa resta dopo aver letto un libro? A volte un’immagine o un sentimento, un’idea, un personaggio. Di certi romanzi restano echi vaghe o pallidi fantasmi. Dopo la lettura di Chi se non noi di Germana Urbani, resta impresso nella retina un colore azzurro nostalgia, come lo chiama l’autrice. È un azzurro fatto di cieli sterminati che si posano sulla linea piatta dell’orizzonte, fatta di acqua e campagna, qualche campanile o torre dell’acqua a contrastare la pesantezza dell’aria, densa di afa in estate, di nebbie negli altri mesi. L’azzurro di Chi se non noi è il sapore della nostalgia di un amore, che è stato tutto e ora sembra essersi mangiato ogni cosa, lasciando odore di marcio, di putrescenza.

Germana Urbani ci racconta un’ossessione e la colloca in un paesaggio che è quello del Polesine, del delta del Po, un mondo dimenticato di una bellezza aspra, semplice.

Maria e Luca, i due protagonisti, appartengono a queste terre e già dalle prime pagine sappiamo che il loro è un amore faticoso, fatto soprattutto di contrasti e silenzi. Lei che vuole allontanarsi, seguire le sue ambizioni di architetto e lasciare un segno nella bioarchitettura, lui che vive con i genitori a Ocaro e si è piantato lì, irremovibile; lei che cerca un nome alla loro relazione, lui che l’accoglie per poi ritrarsi, lasciandola sempre appesa all’amo. Finché non succede che quando lei si spoglia di tutto per amore – via il lavoro a Bologna, via l’appartamento a Ferrara, via i sogni – lui la lascia per un’altra e si prende tutto: the winner takes it all, cantavano gli Abba e Maria cade in un dolore feroce.

Cosa rende speciale questo romanzo? Come si può scrivere ancora d’amore e farne sentire l’urgenza? Accompagnando questa storia nera con una lingua purissima, intinta nelle acque del Delta, fatta di luce e merda ma sempre necessaria. È una storia dolorosa, è vero, ma si ride, si sogna, si soffre. Ci si bea di una scrittura nuova che scorre rapida, avanti e indietro, tra un presente cupo e un passato che solo ora, rivisto, mostra le crepe, gli avvertimenti a cui prima Maria era cieca e sorda. E non lo siamo tutti quando siamo innamorati?

Disse così, con profondo sgarbo. Per la prima volta percepii una nota opaca nell’immagine azzurra che mi ero fatta di lui. Ebbi la sensazione che Luca non conoscesse tenerezza né tantomeno misericordia. Ma non ci diedi peso.

La voce di Maria ci accompagna, ora carica di dolcezza, ora malinconica, a volte dura, volgare, come volgare è la sofferenza del corpo, il suo disfacimento nell’acido del dolore. Sono tanti i temi importanti che sono sostanza di questo romanzo: la storia del Polesine, delle sue alluvioni – non solo quella del ’51-, la vita antica dei suoi abitanti. La sofferenza psichica, che si radicalizza sempre più nella protagonista, portandola sul baratro della follia. La violenza nella coppia, che non è solo fisica, ma prima di tutto è fatta di parole e di gesti che annullano l’altro. La famiglia e le sue storie che ne sono la struttura portante.

Conosco a memoria la tiritera nella testa di mio padre e di quelli della sua generazione. Il Polesine dimenticato da tutti: socialisti, comunisti e soprattutto democristiani. Il Polesine che è rimasto alluvionato. Noi che siamo un impasto di terra e acqua. La tragedia che fa parte di noi, il fango che anche fuggendo lontano ti rimane addosso.

Ci sono forti, tra le pagine, il profondo rispetto e l’amore per un paesaggio unico, già fonte d’ispirazione per artisti come Ghirri, Galimberti, Celati, e la passione per la fotografia di cui l’autrice fa dono alla sua Maria, insieme a ricordi di vita domestica che si mescolano all’invenzione, le danno profondità.

La mia copia di Chi se non noi è morbida al tatto, una foto lucida di Ghirri in copertina, le pagine accoglienti, piene di sottolineature, asterischi, rimandi che ho dovuto segnare durante la lettura. Mi è rimasta addosso la voglia di esplorare terre vicine che non conosco, di riprendere la macchina fotografica, di studiare a fondo qualcosa per poi trasformarlo in storia. Mi restano l’invidia che si fa ammirazione e si unisce all’affetto per l’autrice, una donna generosa, determinata, profondamente colta e attenta alla vita delle persone e alla luce in cui si muovono.

Lì si aspettava come si aspetta qualcosa di eterno e indimenticabile, con quel pizzico di strazio che prima o poi contagia la vita molto più profondamente di una malattia.

Chi se non noi (2021) di Germana Urbani. Edizioni nottetempo, aprile 2021.

Antidoto all’apatia letteraria.

apatia letteraria

C’è una malattia che affligge gli accaniti lettori e che si ripropone a intervalli irregolari gettandoli nello sconforto: l’apatia letteraria.

I libri continuano ad accumularsi sulle mensole già sovraccariche e l’unico esercizio che il malato si permette è quello di prenderne uno in mano, sfogliare le prime pagine avidamente e poi, deluso, rimetterlo tra gli altri derelitti, in attesa di un colpo di fulmine che non vuole scoccare.

Il tempo che solitamente si contrae durante la lettura si espande. Il poveretto cerca sollievo alla noia scorrendo inutili schermate sul cellulare, abbruttendosi in attesa del sollievo del sonno.

La letargia è un effetto che spesso si accompagna a questo tipo di malattia: il paziente – che prima era in grado di dormire poche ore per notte pur di finire quel paragrafo! quel capitolo! quel libro! – si arrende miseramente al sonno pur di porre fine al tormento.

Alcuni sostituiscono l’ossessione per la lettura con quella per i telefilm e ingurgitano intere serie alla ricerca di quelle altre vite che prima potevano vivere leggendo. Oh che timido palliativo! Chi ha provato l’ebrezza della lettura difficilmente rimarrà soddisfatto da questa specie di amore mercenario.

Perché la lettura è una droga potente che acuisce i nostri sensi, li amplifica, li distorce.

Un libro ti cambia. Instilla un pensiero, un’idea, un sogno, una follia. Non siamo più gli stessi una volta finita la lettura, soprattutto durante la lettura.

Eppure l’apatia del lettore è sempre in agguato. Basta abbassare la guardia, scegliere un libro sbagliato, magari un altro, annegare i pensieri in un solitario sul cellulare, credere di non avere tempo a sufficienza quando prima leggevi mangiando, lavandoti, nei dieci minuti prima di rimetterti al lavoro. E credi di non poter più leggere. Di essere finito.

E poi.

E poi, disilluso, riprendi in mano per l’ennesima volta un libro – perché alla sensazione di toccarlo non hai ancora rinunciato – sfogli le pagine senza cercare e trovi. Trovi la parola, la frase, il concetto con la stessa frequenza del tuo spirito. Entri in risonanza con il libro che hai trovato (ti ha trovato?) e ricominci a vivere. Sapendo che sarà più intenso delle altre volte ma anche che il rischio di ricadute sarà più alto. Perché più si legge più si diventa esigenti, sempre più consapevoli di quello che vogliamo e meno disposti a compromessi.

Qual è l’antidoto miracoloso dunque? Semplicemente conoscersi ed ascoltarsi.

Ho imparato che ho bisogno di pause per assimilare i libri più complessi, che dopo gli sconvolgimenti dell’animo ho bisogno delle rassicuranti altalene emotive dei sentimenti.

Ho capito che se per qualche settimana invece di leggere straccio gli amici a candy crush soda, poi verranno giorni in cui mangerò libri come facevo da ragazza. E la mattina mi sveglierò con occhi più gonfi ma decisamente più luminosi.