Nanga Parbat di Orso Tosco

Orso Tosco, poeta e romanziere, si misura con un’avventura letteraria che lo porta a percorrere le vite degli alpinisti che, negli anni, si sono confrontati con l’ascensione al Nanga Parbat, una tra le cime più impegnative degli Ottomila: Albert Mummery, Willy Merkl, Hermann Buhl, Reinhold Messner, Nives Meroi, Simone Moro, Tomek, Tom Ballard, Daniele Nardi.

Ogni capitolo è dedicato a uno di loro, alla storia personale che incide sull’approccio alla montagna, a un destino – spesso tragico – che sembra inevitabile, a come il Nanga Parbat sia per ciascuno di loro un’ossessione che si sublima nell’amore assoluto, senza sconti.

L’ossessione, infatti, è la forma d’amore più pura. La meno ragionevole, la più invivibile, ma anche l’unica in grado di modificare esistenze apparentemente consolidate in un battito di ciglia. E come tutte le forme d’amore più pure, è così intensa da risultare contagiosa.

La scelta di questa chiave di lettura permette all’autore di staccarsi dal giudizio che troppo spesso inquina l’approccio a queste imprese temerarie. Perché chi rimane in pianura, o alle pendici delle montagne, chi non ha mai sentito l’estrema fatica, la paura, la consapevolezza di non poter compiere nessun errore perché sarebbe fatale, fatica a comprendere che insieme a tutto questo si può avvertire un’esaltazione pacificata, la sensazione di essere in una dimensione diversa, perfettamente compiuta, che va al di là della mortalità dell’uomo.

Scrivere di montagna non è affatto semplice, perché la montagna ha una misura diversa da quella umana, sia temporale, sia spaziale. Confrontarsi con lei diventa quindi una sfida di lingua, in bilico tra eccesso di lirismo e tecnicismo, tra sublime e noia descrittiva. Orso Tosco trova un linguaggio appassionato e preciso, decifra per noi l’ossessione per la cima trovando una materia che ci parla direttamente al cuore, come possono essere i versi e le citazioni di grandi autori che punteggiano la narrazione.

Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda è un’opera ibrida tra saggio e letteratura, un viaggio avvincente, senza sbavature, in grado di farci intuire come una montagna inaccessibile, pericolosa, spesso mortale, possa diventare un elemento totemico, un simbolo, la possibilità di trovare un senso alla propria vita.

Roccia, neve, ghiaccio: li possiamo sentire sotto le mani, insieme al gelo estremo, alla tensione continua, la fatica, il senso di spossatezza dovuto alla carenza di ossigeno, la consapevolezza che ogni gesto, ogni decisione, possono essere lo spartiacque tra vita e morte. Un assoluto di cui molti di noi hanno bisogno e che questi uomini e donne hanno trovato nel rapporto con la montagna, eterna eppure sempre diversa, indifferente e magnetica, ancora incontaminata.

Orso Tosco ha scritto delle pagine bellissime, oneste ed efficaci. L’unica nota che ho trovato stonata è l’ultimo capitolo, che si pone in sequenza con gli altri mentre lo avrei preferito come nota a parte dell’autore. L’ho interpretato quasi come uno scusarsi, come se lui, uomo di mare, avesse peccato di ubris nel voler trattare di alpinisti e cime inviolabili, come se avesse bisogno di una giustificazione per essersi avvicinato a un qualcosa che non gli appartiene, una divinità di cui ha violato il sacro sacello. Per me, che amo la montagna, che ho rispetto di chi le dedica la sua vita, di chiunque faccia enormi sacrifici per la sua passione, Orso Tosco ha scritto con intensità e rispetto, ha dato voce a storie che forse non mi avrebbero mai raggiunto, ha fatto quello che dovrebbe fare ogni scrittore: dare il suo punto di vista e raccontare una storia nel modo più generoso possibile.

Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda (2023) di Orso Tosco (1982), 66thand2nd, collana Vite inattese, 120 pagine.

Mal di casa di Catrina Davies

L’economia e l’ecologia sono due facce della stessa medaglia. La giustizia sociale dipende da un ecosistema sano.

Mal di casa – perché vivo in un capanno, è il memoir di Catrina Davies, una cantautrice gallese che dopo un’infanzia idilliaca a contatto con la natura della Cornovaglia, si trova sradicata per colpa della crisi abitativa che ha colpito l’Inghilterra e che ha portato suo padre alla bancarotta e sua madre alla depressione. Stanca di sopravvivere in un ripostiglio in subaffitto a Bristol, ossessionata dalla mancanza di soldi e di un luogo che possa chiamare casa, Davies molla tutto e si trasferisce in un vecchio capanno fatiscente vicino all’oceano che suo padre usava come studio.

Ero consapevole che, vista dall’esterno, la mia vita nel capanno sembrasse bizzarra e disperata, soprattutto all’inizio, quando il capanno era un pugno in un occhio, talmente derelitto che pareva sul punto di collassare. Ma per me viverci era qualcosa di assai meno disperato rispetto alle mie vite precedenti in tende e caravan parcheggiati su terreni altrui, o in stanze in affitto dal costo esorbitante. Mi piacevano la luce e la solitudine, mi piaceva trascorrere la maggior parte del tempo all’aperto, adattare il mio comportamento alla forza del vento o alla rigidità del freddo, come i passeri che si nascondevano nel prugnolo spinoso e uscivano cantando con il sole. Ho scambiato frigoriferi e termosifoni con la libertà, e sebbene il mio stile di vita mi abbia posto delle sfide, sono arrivata alla conclusione che la libertà valga qualsiasi privazione materiale.

Il romanzo, pubblicato da Atlantide edizioni nella collana Blu nel 2020, si articola in brevi capitoli in cui Catrina parte dalla sua esperienza personale per raccontare una crisi sociale che tocca molti di noi.

Lo stile è frammentario: si basa sulla narrazione di un tempo recente (il primo anno in cui Catrina ha iniziato a vivere in maniera abusiva nel capanno) e si ramifica in ricordi della sua vita passata, analisi linguistiche su termini che l’autrice ritiene significativi, riferimenti a saggi e dati ufficiali per avvalorare la sua interpretazione della realtà. Non mancano numerosi riferimenti letterari, soprattutto a Thoreau, che con il suo Walden, vita nei boschi, si rivela ancora attuale e con cui diventa impossibile non confrontarsi.

Mentre leggevo questo saggio/memoir, non ho potuto fare a meno di ricollegarlo a Il grande marinaio, romanzo di Catherine Poulaine, e La strada alla fine del mondo di Erin McKittrick. In tutte e tre le opere, raccontate in prima persona, l’esperienza personale forte, a contatto con una natura selvaggia e indomita, è l’occasione per tre donne molto diverse per riflettere sulla propria crisi personale e cercare di darle una interpretazione. Sono resoconti di vita, hanno uno spunto diaristico, ma la riflessione porta a esiti diversi. Per Davies diventa un manifesto sociale, la condanna di un sistema economico squilibrato che si riflette soprattutto sulla crisi delle case, troppo onerose per la maggior parte degli abitanti e spesso vuote perché è più redditizio affittarle come case vacanza. Per Poulaine invece si apre uno scenario più poetico, intimistico, anche violento, mentre per McKittrick l’accento è soprattutto sulla questione ecologica. Per tutte la Natura diventa il banco di prova della propria esistenza, la possibile legittimazione quando tutto il resto non funziona. È una madre severa e distante, che non si cura dei suoi figli ma solo perché i suoi tempi sono diversi rispetto ai nostri. Sta a noi ridimensionare il nostro ruolo e capire che siamo parte di un ingranaggio meraviglioso e complesso. Sempre l’avidità è nemica, sempre la forza che troviamo in noi non è sufficiente: siamo animali sociali e il confronto e il supporto dei nostri simili sono necessari.

Leggere questo romanzo ha significato mettermi in una posizione scomoda: la paura di restare al verde, che per me è un fantasma vago ma terrorizzante, per l’autrice è una realtà che la porta a grandi privazioni ma anche a scelte fondamentali. La sua coscienza sociale ed ecologica è molto forte, mentre io sono una privilegiata, consapevole della situazione ma senza un ruolo attivo in prima persona per portare un cambiamento. La sua forza fisica, l’abitudine a surfare, il rapporto con la natura, la capacità di sopravvivere senza bagno, corrente, riscaldamento… Ecco, io sono molto affezionata alle mie comodità e non sono sicura che saprei rinunciarci in nome di qualche principio astratto. In certi passaggi forse ho trovato l’autrice un po’ troppo indulgente con se stessa, critica solo in apparenza. È il rischio di scrivere un libro per sostenere una tesi, senza contraddittorio. Quando poi l’oggetto che viene studiato è anche quello che compie l’osservazione, diventa impossibile mantenere la giusta obiettività.

Pur con queste sbavature, Mal di casa (Homesick nel titolo originale) offre uno spaccato davvero interessante sulla crisi sociale in Inghilterra e pone le basi per riflessioni importanti sul ruolo dell’economia e della politica per gestire un sistema sempre più vicino al collasso.

Mal di casa. Perché vivo in un capanno. Catrina Davies. Traduzione di Paola De Angelis. Atlantide edizioni. 2020.

Libri di libri: il modo migliore per superare il blocco del lettore.

Domani è un posto enorme. Un’amicizia con Chuck Kinder – di Nicola Manuppelli

Se qualcuno ci avesse fatto caso, la mia lista di libri letti nel 2022 è molto più breve rispetto agli anni scorsi. Ci sono stati motivi pratici ma soprattutto c’è stato un blocco della lettrice sconfortante, che per alcuni mesi mi ha fatto prendere in mano molti libri e chiuderne la lettura di nessuno. Sono cose che capitano, tocca accettarle e aspettare che passino da sole. Magari con l’aiuto di un libro magico.

Domani è un posto enorme. Un’amicizia con Chuck Kinder è uno strano tipo di libro: un po’ biografia, un po’ memoir, un po’ romanzo, è soprattutto una storia di scrittori e di libri. E leggere un libro di libri porta sempre un calore confortante, soprattutto se ti fa entrare nella cerchia di un autore leggendario (e misconosciuto, almeno qui in Italia) come Chuck Kinder.

Nicola Manuppelli è scrittore, editor, traduttore infaticabile e infinito dispensatore di aneddoti. Afferrato l’incarico di portare in Italia nuovi autori americani, propone all’editore il circolo di Stanford, la cui anima pulsante è lo scrittore e docente di scrittura creativa Chuck Kinder. Inizia così un percorso che cambierà la sua vita e la sua scrittura, proprio a partire dall’incontro con Chuck e con i suoi amici, tutti scrittori più o meno famosi.

Nicola Manuppelli e Chuck Kinder

Sia il titolo, sia il carattere dell’opera, sono un omaggio a Kinder e alla sua poetica: è lo stesso scrittore americano che sceglie Manuppelli come biografo ufficiale, non senza prima raccomandarsi di scrivere un libro che sia soprattutto di Nicola. Il materiale raccolto è tantissimo: ci sono gli scambi epistolari (migliaia di email che attraversano l’oceano), le foto, aneddoti ascoltati direttamente da Chuck e dai suoi amici o vissuti in prima persona da Nicola. Difficile organizzare tutto in maniera organica ma Manuppelli trova la chiave di lettura, ovviamente suggerita dallo stesso Kinder: la faction, neologismo nato dalla fusione tra fiction (finzione) e fact (fatto).

Vivere per scrivere è diverso da raccontare qualcosa dopo che è successa. È farla accadere.

La nostra vita è fatta di storie, basta accorgersene per poterle raccontare: già nel momento in cui viviamo possiamo scrivere un nuovo racconto e viene quindi naturale forzare un po’ gli eventi, o la loro interpretazione, o il loro ricordo, per renderli una storia interessante da essere raccontata. Con uno spirito giocoso, ironico e fortemente narrativo ci viene quindi proposto un qualcosa che non è detto che sia vero ma di sicuro è verosimile e affascinante. Un ottimo modo anche per confondere il lettore e mantenere un certo grado di riservatezza anche raccontando fatti realmente accaduti. Perché chi può dire quanto di vero ci sia in quello che leggiamo, quando è lo stesso Kinder a inventare una mitologia di se stesso, a dare più versioni degli stessi fatti, a scombinare gli eventi per lasciarci incantati e dubbiosi allo stesso tempo?

Chuck teneva il mostro* in cantina, vicino a un sacco da pugile. Era alto come una persona e per anni ci aveva fatto tanto a pugni quanto con il sacco. Perché? Perché tutto si può raccontare. Il mondo è una tale miniera di storie che spesso non sappiamo come metterci il tappo. Basta vederle. Chuck diceva che gli uomini per il settanta per cento sono composti da acqua, per il resto da storie.

(*) si riferisce al manoscritto originale di Lune di miele che Kinder aveva impiegato anni per scrivere.

Quest’opera ha un’altra caratteristica fondamentale: è intrisa di tenerezza. C’è amore per la scrittura, per i libri, per le donne, per gli amici, per l’avventura. Un romanticismo a tratti dolente ma sempre pronto a ridere di se stesso. Un’ingenuità preziosa, a tratti infantile, che non è un difetto ma una conquista di cuori puri, capaci di passare dalla commozione alla risata gradassa, dall’alcol e le risse al sostegno incondizionato: Chuck Kinder è un maestro che non cerca mai di affossare i suoi studenti ma siede loro accanto e, con pazienza, fa scoprire in loro la voce dello scrittore, una qualità che li accompagnerà per tutta la vita.

Kinder è un aggregatore, un catalizzatore, un acceleratore che mette in movimento le menti e i cuori e genera incontri e scrittura. Intorno a lui tanti nomi importanti della scena americana, a partire da quel Raymond Carver che sarà suo stretto amico, nonostante Kinder gli abbia soffiato Diane, compagna di una vita e pilastro della comunità di scrittori che si aggrega e disgrega attorno a casa Kinder, vegliata dai sacri numi dell’alcol e della scrittura.

Domani è un posto enorme è un libro per chi ama leggere, per chi crede che uno scrittore non debba per forza essere solitario ma possa trarre nutrimento da una comunità di altri scrittori, basata sulla stima e l’amicizia. È il libro perfetto per chi ama sentire raccontare storie davanti al fuoco con (numerosi) bicchieri di vino a disposizione, per chi cerca la sincerità nella scrittura (non la verità), per chi è affascinato dall’America e si esalta a leggere di Bukowski, Carver, Ford, Masters, Ward, e tanti tantissimi altri.

Un effetto collaterale però c’è: la necessità di recuperare e approfondire quella parte di letteratura americana (e non solo) che magari si è solo sfiorata o di cui si ignorava l’esistenza. Per fortuna ci pensa Nicola Manuppelli non solo a suggerirci infiniti autori ma anche a tradurli e portarli in Italia, come ha fatto con Dubus.

Una nota personale: ho avuto il piacere di partecipare a una chiacchierata con l’autore nella cornice della libreria Zabarella di Padova. La libraia Barbara Da Forno ha registrato l’evento (a tradimento) ed è disponibile a questo link: https://fb.watch/dFjzNyPfVM/ anche se vi suggerisco di recuperare soprattutto la lezione informale di Manuppelli (qui: https://fb.watch/dFjCv0u1zF/) su uno dei suoi scrittori di riferimento: Francis Scott Fitzgerald. Leggerne in quest’opera e sentirne parlare da lui mi ha spinto a riprendere in mano il Grande Gatsby. Non c’è nulla di meglio di un libro di libri per spezzare l’incantesimo e ritrovare la voglia di leggere.

Nel finale de Il grande Gatsby, Fitzgerald parla di ciò a cui Gatsby credeva di più, “la luce verde, il futuro orgasmico che anno dopo anno si allontana da noi…”, quel futuro che non importa se ci è sfuggito ma che ci costringe sempre a correre e inseguirlo e allargare le braccia per afferrarlo. È questo il tema delle opere di Chuck; il presente che vive nell’imprevedibile futuro, il passato che vive nel presente. Lui lo dice per scherzo, ma è davvero il punto della questione. Il passato come serbatoio, il domani come proiezione delle nostre storie.

Domani è un posto enorme. Un’amicizia con Chuck Kinder (2021) di Nicola Manuppelli. Casa editrice Jimenez.

SalTO22 – il Salone del Libro di Torino

C’è chi va in India per ritrovare se stesso e chi percorre lunghi cammini a piedi per lasciare spazio ai pensieri di espandersi, poi ci sono io che invece vado al Salone del libro di Torino: ogni volta torno arricchita dall’incontro con gli altri, dalla passione comune condivisa, dall’atmosfera da gita di terza media che toglie un po’ di serietà dalle spalle stanche.

Mentre camminavo verso l’ufficio questa mattina e la quotidianità ricominciava ad apparecchiarsi di fronte a me, riflettevo di come sia un’esperienza che negli anni mi ha aiutato a riconoscere una maggiore complessità: se prima tutto era appiattito sulla stessa frequenza, ogni volta al Salone si aggiungono nuovi toni: bassi, acuti, sgraziati, melodiosi. Si arricchisce anche l’immagine che avevo di me attraverso lo sguardo degli altri: amici cari, conoscenti, persone che stimo o che mi stanno antipatiche a pelle. Il mio pensiero smette di essere statico, non temo più le contraddizioni, rinuncio alle definizioni.

Negli ultimi anni ho scelto di muovermi da sola, senza la stampella emotiva dell’altro. E così ogni Salone è diventato l’occasione per conoscermi, mettermi alla prova. Non potrebbe succedere in un altro posto: l’amore per i libri è tale da travolgermi, supera la paura dell’inadeguatezza, della folla, del timore di essere inopportuna. Il Salone è indipendenza ma non solitudine. Ogni anno la rete di amicizie diventa più fitta, più sicura. Gli ancoraggi più solidi. Per me, che faccio fatica a considerare l’idea che gli altri si possano interessare a me, o volermi bene, è una sfida, è un accettare l’altro e credergli.

In pochi giorni ho camminato trenta chilometri, stretto decine di mani, abbracciato persone alle quali sono davvero affezionata. Ho mangiato a orari improponibili ma mi sono ricordata di farlo, ho preso un taxi perché era troppo tardi anche se avrei preferito camminare, ho litigato con i treni che mi hanno tenuto in ostaggio per ore. Ho scoperto che la liquerizia è l’alleata perfetta contro i cali di pressione mentre la birra, quando fa così caldo da sfocare i contorni, rende lo sguardo più nitido.

Ho ascoltato la mia autrice preferita, Amélie Nothomb, dopo infiniti tentativi di prenotare un posto alla presentazione, e ho pianto per la metà del tempo, per l’emozione di sentirla vicina in certi movimenti della scrittura e del cuore. Ho pianto tanto in generale, sopraffatta da emozioni complesse, ma con una dominante di profonda felicità.

La valigia domenica al ritorno era così piena di libri che si è azzoppata e l’ho trascinata sotto il sole fino alla stazione, sempre fuori tempo ma incredibilmente sempre in orario. Libri di amici, libri in regalo o da regalare, prestiti, romanzi a lungo inseguiti e finalmente trovati.

In questi giorni ho letto post molto belli, brillanti, emozionanti, ricchi di riferimenti e tag alle persone incontrate. Sono convinta che supererei la quota ammessa e questo articolo diverrebbe così lungo che nessuno arriverebbe alla fine, ma che importa? Il tema di quest’anno era cuori selvaggi: è una definizione che si adatta bene a molti di loro, che coglie quello scarto dalla quotidianità che in modi diversi mettiamo in pratica, come speranza di salvezza.

I cuori selvaggi sono quelli di Paolo, prima mentore e ora soprattutto carissimo amico; di Alessandro, un talento enorme che finalmente esplode sulla pagina; di Serena, dalla voce esitante e il cuore fermo, piena di grazia; di Carmelo e Alessandra, i due baresi (lei più di lui) che mi accolgono sempre col sorriso e non finiscono mai di stupirmi; di Gianluigi e Edo, che l’amore per loro è troppo grande per scriverlo; di Alex che è solido e inafferrabile allo stesso tempo; di Christian che scrive con le immagini e usa la macchina fotografica come un microscopio dell’anima; di Angelo e Francesco che mi fanno sempre sentire a casa, dentro e fuori il Salone; di Giovanni che rimane fedele al suo sguardo e alla sua passione; di Silvia e Sara che sono uscite dallo schermo per farsi finalmente abbracciare; dei veneti che ormai hanno colonizzato gli stand e che a volte trascuro perché so che posso rivederli anche se ho bisogno di sapere che ci sono: Enrico, sempre obliquo se non sottosopra, e Federica, rassicurante e ironica controparte; Germana, spumeggiante e acuta, distratta e presente; Giuseppe, la serenità mai scontata; Andrea con cui ci siamo dati il cambio quest’anno ma c’era lo stesso; Lucia dagli occhi raggianti che sorride e brontola allo stesso tempo; Elena che sembra sempre lì per caso ma non si lascia fermare da nulla pur di stare insieme; Alessandra che ha fatto sentire la sua assenza ma sono sicura sarà l’ultima volta.

Guest star si confermano anche quest’anno gli scoiattoli del Valentino mentre la canzone di chiusura non può che essere dei Subsonica che mi hanno accompagnato per tutto il viaggio di ritorno e hanno contribuito a costruire il mio amore mitologico per questa città.

A presto, Torino.

Un altro giorno, un’altra ora, ed un momento

Dentro l’aria sporca il tuo sorriso controvento

Il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco

Tu sei come me