Austerlitz di W.G. Sebald

Il romanzo di Sebald si inserisce nell’ambito della letteratura della memoria. Memoria come ricordo, rapporto con il passato, definizione della nostra identità. Memoria di un grande trauma collettivo come lo è stato la persecuzione degli ebrei.

Ho affrontato la lettura di Austerlitz perché ne avevo trovate ampie tracce nel romanzo Pensa il risveglio di Alessandro Cinquegrani (vedi i riferimenti qui) mentre il nome di Sebald e l’importanza della sua opera nel panorama della letteratura tedesca e europea mi erano stati più volte accennati da due grandi spacciatori di libri belli, Andrea Siviero e Paolo Zardi. Quando è stato il momento di scegliere la prima lettura del 2022 non ho avuto dubbi, nonostante sia una scelta a cui tendo a dare un peso specifico notevole, come se fosse l’indicatore di una rotta da seguire.

Ho iniziato questo romanzo consapevole della sua importanza, ma del tutto ignorante del resto. Ho lasciato che fosse Sebald a parlarmi attraverso le sue pagine, libera da sovrastrutture interpretative, e mi sono trovata immersa in un flusso di parole e immagini che mi ha trasportato attraverso mezza Europa, avanti e indietro nel tempo, tra architetture imponenti e riflessioni sempre più stringenti.

Se all’inizio mi sono lasciata sedurre dalla prosa, procedendo nella lettura ho capito che Sebald stava costruendo un’imponente fortificazione – fondazioni, torri, muri portanti, archi, contrafforti – per sostenere il peso del peccato originale tedesco: l’aver permesso al male di flagellare l’Europa.

I temi della seconda guerra mondiale, del nazismo e della repressione ebraica mi hanno sempre impressionato profondamente. Difficilmente riesco a vedere film sull’argomento, i musei che ho visitato in passato mi hanno sempre turbato profondamente ed è solo attraverso i libri che riesco ad approcciarmi all’argomento, per l’impressione di poter assimilare l’orrore lentamente, senza possibilità di volgere altrove lo sguardo, con una consapevolezza sempre parziale ma intima e sofferta. Il male organizzato, deciso a tavolino, banalizzato nella sua ripetizione quotidiana, non più atto straordinario ma ordinario, credo siano questi tra gli aspetti che più mi inorridiscono, la volontà del male più che il modo (orribile) in cui è stato inflitto.

Negli anni ho accumulato diverse letture sull’argomento: Se questo è un uomo di Primo Levi, La notte di Elie Wiesel, La zona d’interesse di Martin Amis, Le assaggiatrici di Rosella Postorino. Alcune scritte dalla parte degli oppressi, altre da quella degli oppressori.

Sebald nasce dalla parte degli oppressori: è tedesco, suo padre si arruolò nel 1929 nella Reichswehr e rimase nella Wehrmacht sotto i nazisti (fonte wikipedia). Cosa può significare per un uomo avere tali radici? Come ci si può rapportare senza ricorrere alla rimozione o alla negazione? Sebald ci ha provato con la scrittura.

In Austerlitz la voce narrante è quella dell’autore che apre il romanzo ricordando una sua visita in Belgio ad Anversa nella seconda metà degli anni Sessanta. Già dalle prime pagine avvertiamo un senso di malessere che si acuisce nella visita al Nocturama, una sezione dello zoo locale in cui gli animali vivono in una notte artificiale e, nella penombra, fissano con i loro grandi occhi i visitatori. Nel ricordo del narratore, il Nocturama si sovrappone alla sala d’attesa della stazione ferroviaria di Anversa, la Centraal Station, dove farà il suo primo incontro con il vero protagonista del romanzo, l’architetto Austerlitz.

Già nelle prime pagine appaiono alcuni dei temi portanti del romanzo: il ricordo, la sua attendibilità e il nostro rapporto con esso; la luce, spesso negata, sempre significativa; l’oppressione e l’esclusione di un gruppo; l’architettura pubblica, grandiosa e opprimente, dalle enormi cupole che si succederanno nel corso della narrazione e, naturalmente, viene introdotta la figura di Austerlitz.

Come gli animali del Nocturama, tra i quali le razze nane erano sorprendentemente numerose – minuscole volpi del deserto, lepri saltatrici, criceti -, anche quei viaggiatori mi parevano in qualche modo rimpiccioliti, forse a causa del soffitto eccezionalmente alto, forse per l’oscurità che andava sempre più crescendo, e suppongo di essere stato sfiorato per questo dal pensiero, in sé assurdo, che si trattasse degli ultimi rappresentanti di un popolo in via d’estinzione, cacciato dalla sua patria o scomparso; ultimi rappresentanti che, solo per il fatto di essere gli unici sopravvissuti, avevano la stessa espressione afflitta degli animali allo zoo. – Tra le persone in attesa nella Salle des pas perdus c’era Austerlitz, un uomo che allora, nel ’67, aveva un aspetto quasi giovanile, con i capelli biondi singolarmente ondulati, come li ho visti soltanto all’eroe germanico Siegfried nel film di Lang sui Nibelunghi. Non diversamente da tutti i nostri successivi incontri, anche quella volta ad Anversa Austerlitz portava calzature pesanti, una sorta di pantaloni da lavoro in tela blu sbiadita e una giacca di buon taglio, ma completamente fuori moda, e – a parte l’aspetto esteriore – si distingueva dagli altri viaggiatori anche perché era l’unico a non guardare fisso nel vuoto con le mani in mano, tutto preso com’era dalla stesura di appunti e schizzi che avevano di certo un qualche nesso con quella sala sfarzosa in cui sedevamo entrambi – sala a mio avviso più adatta alle cerimonie ufficiali che non all’attesa della prima coincidenza per Parigi o Ostenda -, perché, nei momenti in cui non era impegnato a scrivere, il suo sguardo restava spesso e a lungo posato sulla fuga di finestre, sui pilastri scanalati o su altri aspetti e dettagli di quella parte dell’edificio.

A questo primo incontro tra i due ne seguiranno altri. All’inizio ad Anversa, in quelle che Austerlitz avrebbe poi chiamato conversazioni «anversane», relative soprattutto a questioni di storia dell’architettura che mettono in luce le sue eccezionali conoscenze specialistiche; in seguito a Londra e infine a Parigi.

All’inizio Austerlitz ci appare come un erudito un po’ eccentrico ma, procedendo lungo la narrazione, si intravvedono crepe sempre più significative, dalle quali filtra un malessere a tratti invalidante, un dolore che percorre tutta la storia degli uomini e di quell’uomo in particolare. Verremo così a conoscere, attraverso la voce del narratore che ci riporta i racconti di Austerlitz, la storia di questo personaggio, dall’infanzia in Galles presso la famiglia di un pastore alla quale è stato affidato, agli studi presso un collegio dove stringerà importanti amicizie con il professore Hilary e il compagno più giovane Gerald Fitzpatrick e scoprirà un segreto sul suo passato talmente sconvolgente da negarlo e affondarlo nella parte più nascosta di sé. Ma quello che con la ragione e la paura teniamo rinchiuso, prima o poi cerca di farsi strada, e numerosi malesseri, sfociati in veri e propri attacchi di panico, costringeranno Austerlitz ad affrontare la ricerca del suo passato, con la stessa cura rigorosa che aveva fino a prima dedicato ai suoi studi.

La scrittura di Sebald procede come un unico flusso continuo per tutto il romanzo, costruita con periodi ampi e numerosi incisi e digressioni, senza il sostegno di capitoli o pause, ma punteggiata da numerose fotografie in bianco e nero che fanno da contrappunto alla narrazione, da frasi in altre lingue – inglese, francese, belga, slovacco – da elenchi e descrizioni erudite. La meraviglia è che tutti questi elementi sono tenuti insieme da una voce avvolgente, ipnotica, dal respiro musicale, alla quale è facile abbandonarsi senza paura di perdere il cammino, sicuri che al momento giusto arriverà l’inciso che riorienta le coordinate.

L’incredibile erudizione di Austerlitz, che non si limita all’architettura ma si estende alla botanica, alla conoscenza delle lingue, alla geografia, alla pittura, ha un punto cieco in tutto ciò che riguarda il popolo tedesco.

Mai in vita mia avevo messo piede sul suolo tedesco, avevo sempre evitato di acquisire anche solo la minima nozione in merito alla topografia tedesca, alla storia tedesca o alle attuali condizioni di vita dei Tedeschi, e perciò la Germania, disse Austerlitz, era per me il paese più sconosciuto di tutti, addirittura più estraneo dell’Afghanistan o del Paraguay. 

Quello che ci viene presentato come un freddo professore, distante dalle passioni umane, è divorato all’interno dalla fascinazione per i morti, i cimiteri, il tempo e, somma di tutto, la memoria. Sebald tratteggia un personaggio che cerca con la ragione di proteggersi dalla vita, ma non può derogare dalla propria umanità, dagli affetti che comunque intreccia negli anni, dalla tenerezza che emerge sempre nell’accenno alle donne che ha amato: Adela, la giovane vedova madre di Gerald Fitzpatrick; Vera, la donna che lo aveva accudito nella prima infanzia; Agata, la madre bellissima, cantante d’opera; Marie, la collega studiosa che lo accudisce a Parigi.

C’è un momento in cui Austerlitz parla di Adela, dopo che ha riaccompagnato l’amico alla stazione in seguito al doppio funerale che li ha riuniti, e che ho trovato di una grande delicatezza, un primo momento di tenerezza che mi ha sorpreso:

 Quando tornai indietro – stava già scendendo la sera, disse Austerlitz, e nell’aria era sospesa, apparentemente senza cadere, una pioggerellina finissima -, mi venne incontro dal fondo nebbioso del giardino Adela, tutta avvolta in panni di lana verde muschio, sul cui bordo finemente increspato milioni di minuscole goccioline d’acqua creavano intorno alla sua figura una sorta di argenteo luccichio. Nella piega del braccio destro Adela portava un grosso mazzo di crisantemi color ruggine. Attraversammo insieme il cortile senza scambiare una parola e ci fermammo sulla soglia: ella sollevò allora la mano libera e mi ravviò i capelli sulla fronte, quasi sapesse che quell’unico gesto le dava il privilegio di essere ricordata. Sì, disse Austerlitz, io la rivedo ancora; e per me Adela è rimasta sempre così, bella com’era a quel tempo. 

O come quando fa raccontare a Vera il commiato da Agata, alla quale era stato impedito per lungo tempo di visitare i luoghi amati, consapevoli che non si vedranno più:

Dopo poco Agáta mi pregò di lasciarla. Al momento dell’addio mi abbracciò e mi disse: Laggiù c’è il parco Stromovka. Andresti qualche volta a fare una passeggiata per me? Un luogo così bello, che mi è sempre stato tanto caro. Magari, se guardi nell’acqua scura degli stagni, chissà che in una bella giornata tu non veda il mio volto.

Austerlitz sembra però negarsi la possibilità di avere rapporti con altre persone, convinto di essere inabile alla vita.

Se in generale qualcosa mi legava ancora agli uomini, erano in definitiva soltanto certe forme di cortesia, da me addirittura esasperate, il cui fine – come oggi so, disse Austerlitz – era non l’omaggio all’interlocutore del momento, ma la possibilità di sottrarmi alla consapevolezza di essere sempre vissuto – per quanto indietro riuscissi a risalire con il pensiero – in uno stato di assoluta disperazione.

Nel romanzo di Sebald quasi a ogni pagina ho trovato un qualcosa che mi ha toccato e il mio ebook è pieno di sottolineature. Tra le innumerevoli mi ha colpito quando Austerlitz racconta del suo progetto di scrittura, della fatica e della repulsione che sperimenta per ciò che ha scritto e che finirà per seppellire in giardino, disgustato.

Ma quanti più sforzi dedicavo, mese dopo mese, a questo progetto, tanto più scarsi mi apparivano i risultati, e tanto più venivo colto da un senso di repulsione e disgusto se solo aprivo le cartelle e mi mettevo a sfogliare le innumerevoli pagine da me scritte nel corso del tempo, disse Austerlitz. Eppure leggere e scrivere erano sempre state le sue occupazioni preferite. Come mi piaceva, disse Austerlitz, starmene seduto in compagnia di un libro fino a sera inoltrata, finché non riuscivo più a decifrare una sola parola e i pensieri incominciavano a girare in cerchio, e come mi sentivo al sicuro quando, nella mia casa avvolta dalle tenebre, sedevo alla scrivania e non dovevo far altro che guardare, al chiarore della lampada, la punta della matita in atto di seguire, quasi da sola e con assoluta fedeltà, la propria ombra che scivolava regolarmente da sinistra a destra e dall’alto in basso sul foglio a righe. Ora invece la scrittura mi risultava un peso tale, che spesso era necessario un giorno intero per una sola frase, e avevo appena finito di buttar giù una di queste frasi imbastite con tanta fatica, che subito si manifestava la penosa erroneità delle mie costruzioni e l’inadeguatezza di tutte le parole da me impiegate. Se nondimeno, per una sorta di autoinganno, riuscivo talvolta a ritenere adempiuto il mio penso giornaliero, la mattina dopo, al primo sguardo gettato sul foglio, vedevo immancabilmente venirmi incontro errori, incongruenze e abbagli della peggior specie. Poco o molto che fosse quanto avevo scritto, non appena cominciavo a leggerlo, mi pareva sempre sbagliato da cima a fondo, sicché dovevo cancellarlo subito e riprendere dall’inizio. Presto mi risultò impossibile azzardare il primo passo.

Mentre leggevo e ora, mentre scrivo queste mie impressioni, mi accorgo che sono infiniti gli spunti che ho trovato tra le pagine, e quando mi domando cosa rende un romanzo un’opera eccezionale penso che sia nella sua capacità di parlare alla nostra anima e alla nostra intelligenza, prendendosi cura di entrambe.

Non so se Sebald assurgerà tra i miei autori preferiti, l’ho appena incontrato, di sicuro Austerlitz è appena diventato uno dei miei libri più amati.

Austerlitz (2001) di W.G. Sebald (1944-2001). Adelphi editore, 2002.

Dieci/Dieci una data facile da ricordare

cielo e alberi

Le date hanno sempre rappresentato per la mia memoria uno scoglio piuttosto viscido. Quando credo di avere un aggrappo sicuro, un’onda più infida delle altre mi ripiomba nell’ignoranza: i numeri si confondono, si alternano, si scambiano di posto, si nascondono o fingono di essere qualcun altro. A parte qualche riferimento che emerge come una cima tra le nebbie (1492 – 1789 – 15/18) il resto si perde, con mio sommo fastidio tra  l’altro, soprattutto se penso a tutte le ore della mia vita spese in una lotta impari.

Per le ricorrenze la situazione è piuttosto simile: ricordo qualche compleanno, qualche anniversario, ma solo se lo tengo in vita, se me lo ripeto tra me e me, in una cantilena che assomiglia al rosario di preghiere dei maggi della mia infanzia. Per dire, ho ancora qualche incertezza nel ricordare la data esatta di nascita di mia figlia, ma conto che con gli anni (e i moduli da compilare) diventerà un κτῆμα ἐς αἰεί  (un possesso per sempre, come diceva la Bresolin, la mia prof. di greco del liceo, e prima di lei il signor Tucidide).

Un data che invece non riesco a scordare, che mi si è infilata sotto pelle come una zecca e si gonfia e pulsa a mano a mano che si avvicina, che continua ad avvelenarmi il sangue, anche se ogni anno sono sicura di essere diventata immune (e di certo un po’ lo sono diventata, o forse sono solo rassegnata a questa malattia ciclica, un po’ come un’allergia o un’influenza stagionali), un data, dicevo, facile da ricordare è oggi: dieci del dieci. E oggi, per il ventisettesimo anno consecutivo, maledico questo giorno. E, ancora una volta, ci dedico un post su un blog. Perché scrivere è cercare di dare una forma al guazzabuglio che ho dentro.

Oggi prevale la rabbia, per tutto quello che poteva esserci e non c’è stato. Per il mio animo sbilenco. Per l’assenza che è presenza, costante. Perché preferisco essere arrabbiata che piangere altre lacrime. In attesa di un’accettazione serena che prima o poi si deciderà ad abitare stabilmente dentro di me.

Sole, vento e libertà

Colli Euganei e BacchiglioneLa primavera chiama, irresistibile e infida, e dopo due giorni di pioggia siamo andati a bagnarci di sole.

Piccola gita sotto casa, tra argini e campagne, con i Colli Euganei che emergono nitidi e vicinissimi tra campanili e alberi.

Sono le prime uscite in bicicletta con Cecilia, che ogni volta riesce a stare sveglia un poco più a lungo, in una mano un palloncino, l’altra fissa sul manubrio, gli occhi sgranati e la risata in bocca, una testina rotonda sotto il mio mento.

Lasciamo la Brentella e seguiamo le anse del Fiume Bacchiglione, le case si fanno più sparse, gli uccelli più rumorosi. Cecilia si addormenta e decidiamo di fermarci. C’è un ponte, ci sono bandierine rosse. E’ il 25 aprile, magari troveremo qualche sagra.

Ci avviciniamo a Selvazzano Dentro, e dietro l’angolo la sorpresa: ordinati in fila sotto il cielo terso ci sono un centinaio di mezzi militari storici, gli equipaggi in costume rilassati che chiacchierano e mangiano. E’ La colonna della libertà, una manifestazione storica rievocativa che tra sabato e lunedì ha attraversato i Comuni della Provincia di Padova, di Treviso e Venezia.

Emozionati, camminiamo tra jeep e moto, carri armati e mezzi anfibi, in un clima allegro e festoso dove accenti e lingue diverse si incontrano. Sembra di essere sul set di un film, ogni mezzo è curato nei più piccoli particolari, gli equipaggi sono in divisa, sono collezionisti, amatori, famiglie e gruppi di amici. Bambini e anche qualche cane, rigorosamente in vestiti d’epoca. C’è musica nell’aria, Cecilia si sveglia e ci guarda meravigliata, poi corre a raccogliere sorrisi e complimenti, si arrampica e gioca, felice della situazione imprevista. La festa della liberazione è anche questo e noi portiamo il nostro contributo di entusiasmo e sorrisi.

Scatto foto, scambio saluti mentre mio marito, appassionato modellista, scopre dettagli inediti sui vari mezzi, che lui conosce tutti per nome e modello. Io mi rammarico di non avere la reflex con me (al suo posto il cambio di pannolini) e scateno la mia indole nipponica con il cellulare. Un distinto signore in uniforme mi sorride e  mi da il volantino del Museo della seconda guerra mondiale del fiume Po, è uno dei suoi fondatori. Più in là un gruppo di ragazzi balla, una coppia si bacia e una mamma in divisa abbraccia il suo bambino. Forse è questa la gioia che si respirava in quei giorni, poco più di settantanni fa. Vorrei averlo chiesto ai miei nonni, per poterlo raccontare un giorno alla mia bimba. Ma non ci ho pensato. E ora cerco nel racconto di altri quella che è stata anche la storia della mia famiglia.