
Fissando il sole di Yalom è un saggio sulla morte, sul terrore che provoca nelle persone e sulle risorse che abbiamo per superarlo.
I saggi non sono il mio genere d’elezione: sulla lunga distanza tendo a perdere concentrazione, mi lascio prendere dall’ansia di non aver afferrato i singoli concetti o assimilato tutte le informazioni, di perdere la visione generale e magari annoiarmi. Insomma, li inizio e non li finisco.
Con Yalom è stata tutta un’altra storia. Non solo per l’argomento.
Le soleil ni la mort ne se peuvent regarder en face.
(Nè il sole nè la morte si possono guardare fisso)
Francois de La Rochefoucauld, Massima 26
In questo saggio l’autore raccoglie la sua esperienza di psichiatra che ha avuto spesso a che fare con persone molto vicine al pensiero della propria morte, o perché ammalate in fase terminale, o perché toccate da lutti personali, o infine perché hanno iniziato la parabola discendente della vita.
Il pensiero della morte è un tabù nella nostra società e noi abbiamo perso le parole e i modi per affrontarlo quando inevitabilmente ci tocca da vicino, finendo per rimanere paralizzati.
Il potere della presenza
Il più grande servizio che si può rendere a qualcuno che si trova a fronteggiare la morte (e da questo punto in avanti parlo sia di coloro che sono affetti da una malattia letale che degli individui fisicamente sani che sperimentano il terrore della morte) è quello di offrirgli la propria pura e semplice presenza.
L’aspetto incredibile di questa lettura è stato il senso di serenità che mi ha pervaso pagina dopo pagina. È come se mi avesse accompagnato in una meditazione necessaria, fornendomi strumenti e parole per esprimere un qualcosa che ho sempre sentito in modo confuso. E lo fa con uno stile limpido, riferimenti letterari e filosofici preziosi, aneddoti ben inseriti e un approccio profondamente ricco di calore umano.
La mia formazione è molto lontana da quella di Yalom, ma nutro un grande interesse per tutto quello che riguarda l’uomo e la sua mente. Il viaggio in cui mi ha accompagnata mi ha fornito numerosi spunti, alcuni dei quali continuano a risuonarmi dentro a distanza di settimane.
Le decisioni importanti spesso hanno radici profonde. Ogni scelta implica un abbandono, e ogni abbandono ci rende consapevoli delle limitazioni e della temporaneità.
Alcune sono parole semplici che esprimono concetti profondi: quando ci sono io non c’è la morte, quando c’è la morte non ci sono io.
Altre sono teorie che sentivo già mie, come quella che Yalom chiama teoria dei cerchi nell’acqua. La nostra vita, le nostre interazioni con gli altri, producono degli effetti di cui non sempre siamo consapevoli. Una nostra frase o un nostro gesto possono imprimere negli altri un significato profondo, che va oltre le nostre intenzioni o la nostra consapevolezza, proprio come un sasso gettato nell’acqua che crea una serie di cerchi concentrici che continuano a espandersi. Perché una delle paure maggiori legate alla morte è quella di sparire, di non lasciare traccia del nostro passaggio, o che i nostri ricordi più preziosi, le conoscenze faticosamente acquisite, spariscano insieme a noi.

Quando mesi fa ho letto le riflessioni di Alessandro Busi nel suo post (qui) dedicato proprio a questo saggio, mi sono sentita in qualche modo colpita profondamente e ho capito che dovevo approfondire il motivo. È stato un vero sasso lanciato nello stagno della mia coscienza che ha creato effetti a catena, su di me e ora spero in chi mi leggerà.
Il mio rapporto con la morte non è di paura per me, se non per il dolore ad essa intimamente legato, quanto piuttosto per la perdita delle persone a me care. Come ho capito già da bambina, chi soffre di più è chi resta, non chi muore, che finalmente ha smesso di soffrire. Ma se un’eco di noi resta nel rapporto con gli altri, siano amici o conoscenti o sconosciuti, lasciamo un’eredità di idee e ricordi a chi resta.
Questa è la settimana in cui compio quarantanni. Una cifra tonda che non sento mi appartenga. Perché non voglio fare bilanci, perché sono ancora in cerca di me stessa e perché a esattamente quarantanni è morto mio padre e verso la fine del 2020 avrò vissuto più giorni di lui. E mi chiedo se ho fatto buon uso della mia vita, dell’eredità morale e intellettuale che mi ha lasciato, della persona meravigliosa che è stato e che chi l’ha conosciuto non manca di ricordarmi. E così, anche se abbiamo vissuto poco insieme, io sento che la sua presenza è forte in me e attorno a me.
Di solito non mi è facile sbilanciarmi sui pensieri più intimi, ma credo che fare un passo verso gli altri, mostrando la propria vulnerabilità, possa a volte essere di conforto. E scrivendo questo penso a una cara amica, che ha fatto della narrazione quotidiana del suo dolore un momento di condivisione e profonda bellezza. Vorrei che anche quel poco che scrivo lo fosse, per chi mi legge. Perché (e sarà almeno il cinquantesimo perché di questo post, mi rendo conto) le relazioni con gli altri sono fondamentali e vorrei che, nella giusta proporzione, fossero comunque significative.
Ecco, ci sarebbe tantissimo altro da dire di più pertinente su Fissando il sole, pensando anche solo alla sua struttura narrativa, pensata per essere il più chiara e diretta possibile, o allo stile così elegante e asciutto, ricco di immagini e di idee che ho sottolineato, asteriscato, segnalato con post-it sgargianti. Segnandomi appunti e nomi di persone. A quanti ho scritto di questo libro, mandando foto del passaggio che più mi aveva fatto pensare a loro! Perché anche se il tema è la morte, questo libro trabocca di vita e vorrei che tutti avessero la possibilità di trovare almeno un passaggio illuminante che li conforti in questo nostro impegnativo viaggio.

Fissando il sole (2008) di Irvin Yalom (1931 USA). Neri Pozza editore, maggio 2017, pp 251. Saggio.