Concerto Kings of Convenience all’anfiteatro del Venda (Padova). Luglio 2022.
L’ascolto della musica è sempre stato per me un atto molto intimo, da consumare possibilmente con delle cuffie o dietro una porta chiusa. La musica deve poi associarsi al movimento: camminare, correre, guidare, ballare, cantare. Solo da quest’anno fa parte anche della scrittura: è diventato uno spazio di raccoglimento, a volte anche di ispirazione.
Negli anni abitudini e i gusti musicali sono naturalmente cambiati. L’utilizzo più sistematico di Spotify ha poi rivoluzionato il mio approccio: non più ascolto di interi album ma ricerche per artisti, mood, generi, epoche.
Così quando mi è stata chiesta la classifica degli album migliori ascoltati nel 2022 mi sono trovata piuttosto in imbarazzo: non sapevo cosa rispondere. Ho anzi scoperto un ritardo generalizzato di almeno un anno anche sugli album che credevo più recenti.
La colonna sonora degli ultimi dodici mesi è stata costellata di singoli e contaminazioni, soprattutto da parte della componente più giovane della famiglia che mi ha tatuato in testa improbabili canzoni k-pop (Black Pink), colonne sonore di film di animazione (Non si nomina Bruno, Red), tormentoni italiani estivi e post Sanremo (Brividi è la canzone che ho più ascoltato nel 2022) in un delirio musicale in cui l’unica costante sono le sette note. Sono però molto orgogliosa di essere riuscita a tirare fuori ben cinque album ascoltati per intero e usciti nel 2022. O almeno così credevo, perché al primo posto, inavvicinabile, c’è un album dello scorso anno. Ma noi facciamo finta di niente, vero?
Artista: Kings of Convenience Album: Peace or love Anno: 2021
Uno dei miei gruppi preferiti, che metto al primo posto della classifica del 2022 non solo perché li ho ascoltati con devozione quasi quotidiana ma soprattutto perché finalmente ho potuto assistere a un loro concerto ed è stata magia pura. Dopo una lunga attesa, sono ritornati con questo disco che non fa rimpiangere i precedenti e regala nuove canzoni indimenticabili come Rocky trail, Fever o il meraviglioso duetto Love is lonely thing. Romantici, dolci e superbi chitarristi. Li amo.
Artista: The Lumineers Album: Brightside Anno: 2022
Gruppo indie folk statunitense, ascoltato sempre con piacere ma in maniera incostante, con questo album si è insediato nel sottofondo musicale quotidiano, tanto da essere canticchiato persino a colazione. Voce malinconica e struggente, arpeggi di chitarra, suono pulito di pianoforte, e poi aperture a cori e batteria, in un movimento emotivo simile allo stormire delle fronde che cresce e diminuisce al variare del vento. Brightside, Where we are e Big shot tra le mie preferite.
Artista: Arcade Fire Album: We Anno: 2022
Album attesissimo, concerto ancora di più, e nessuno dei due mi ha deluso, nonostante la polvere e le defezioni degli ultimi mesi. We è un misto riuscito di epica e elettronica, emozionante e trascinante, che riesce a esprimere intimità in una spettacolarità esibita. Ricchezza di suoni, campionature, strumenti e voci che si inseguono e sovrappongono. Ascoltate Age of anxiety II (rabbit hole) e ditemi se riuscite a stare fermi. Impossibile.
Artista: Coma_cose Album: Un meraviglioso modo di salvarsi Anno: 2022
Scoperti in occasione di una loro collaborazione con i Subsonica, sono usciti verso fine anno con questo nuovo album che non ho ancora avuto modo di ascoltare in maniera approfondita ma che mi ha già colpito piacevolmente. Lei soprattutto ha una voce e un’intonazione molto interessanti, in cui si uniscono freschezza, ingenuità e controllo. Questo album mischia ritmi e sonorità diverse, anche all’interno degli stessi brani, in un amalgama stilistico riuscito e stimolante.
Artista: Old sea brigade Album: 5 am paradise Anno: 2022
Cantautore americano, ancora indie folk, perfetto da ascoltare lungo una strada dritta, mentre fuori piove e il gelo cerca di entrare nell’abitacolo. Le sonorità calde e dilatate, il suono pieno, dolce e carico di nostalgia, permette di scivolare via senza perdersi del tutto.
Ri-Scoperte del 2022
Artisti famosissimi che non avevo mai ascoltato prima ma che hanno saputo interpretare in maniera commovente i moti del mio spirito inquieto: Damien Rice, Elliott Smith e Radical face. Ho scritto tantissimo insieme a loro e non potevo escluderli da questo riassunto musicale.
Passata l’euforia sanremese, in attesa della follia dell’Eurovision, c’è sempre spazio per ampliare il proprio sguardo sul panorama musicale, magari accompagnati dalle voci di ottimi scrittori.
Ognuno di noi ha la sua personale cultura musicale, legata ai propri gusti, certo, ma anche alle influenze ricevute negli anni: la famiglia, gli amici, gli amori; e poi le canzoni che hanno fatto da colonna sonora a eventi importanti della nostra vita, singolari o collettivi, o quelle che ci restano appiccicate addosso come un chewingum alla scarpa e non ce ne sappiamo più liberare.
C’è una memoria sonora in ognuno di noi, capace di entrare in connessione con una parte intima e sincera, magari contraddittoria e sfaccettata, e ci sono canzoni in grado di toccare punti della nostra anima e svegliarli dalla parestesia in cui erano precipitati, anche solo per i tre-quattro minuti di una traccia nelle cuffiette.
In questi giorni esce per Arcana editore Ti racconto una canzone, a cura di Massimiliano Nuzzolo, in collaborazione con Eleonora Serino. Si tratta di una raccolta di racconti scritti da una quarantina di autori diversi, tutti accomunati dal legame con una canzone specifica.
Scorrendo la lista degli autori (come faccio per ogni rivista letteraria o raccolta che mi capita tra le mani) ho riconosciuto tre scrittori – tre amici – con i quali mi sarebbe piaciuto approfondire su più fronti il rapporto tra scrittura e musica. È nata così l’idea di un’intervista qui sul blog (la prima!) a partire dall’analisi del loro racconto per poi dare vita a un confronto molto interessante, ricco di nuove suggestioni di lettura e di ascolto, e di nuovi spunti di riflessione sull’atto della scrittura.
In ordine del tutto casuale (che sia alfabetico è solo un caso, appunto), iniziamo da Gianluigi Bodi.
Per chi come me bazzica tra riviste letterarie e piccola-media editoria, Gianluigi Bodi è un’istituzione: credo abbia pubblicato con quasi tutte le riviste presenti e future, ha un blog molto apprezzato in cui da tempo immemore recensisce centinaia di romanzi all’anno (senzaudio), collabora con il Premio Comisso per individuare e intervistare i nuovi autori veneti ed è di una modestia imbarazzante ma profondamente sincera. Per Arcana ha scritto il racconto Child is my name, legato alla canzone omonima dei Kemopetrol, primo singolo del gruppo finlandese, uscita nel 1999.
(MF) In che momento hai deciso che avresti trasformato in racconto proprio questa canzone?
(GB) Child is my name ha avuto una genesi che parte da lontano. Ho scritto una prima versione di questo racconto nel 2000 con tutti i difetti che può avere un racconto scritto più di vent’anni fa. La prima versione era abbastanza ingenua a essere buoni. Quando Massimiliano Nuzzolo mi ha chiesto di contribuire alla raccolta ho scritto di getto un racconto basato su un’altra canzone, un’altra ossessione, ma era troppo lungo e non volevo tagliarlo perché mi sembrava di snaturarlo. Mi è tornato in mente Child is my name e ho deciso di riscriverlo senza rileggere la versione precedente e devo dire che sono molto felice del risultato.
(MF) Ogni autore ha i suoi scrittori di riferimento, ma qual è la musica che senti più vicina al tuo modo di scrivere? C’è un autore o un gruppo musicale che senti affine e se sì, coincide con la musica che ascolti più volentieri o sono due mondi musicali distinti?
(GB) Ho sempre ascoltato tanta musica fin da quando ero bambino, ma ovviamente i gusti sono cambiati con il passare degli anni. Non so dirti se ci sia un autore o un gruppo musicale che sento affine, ma di sicuro c’è un parallelismo tra un certo tipo di musica che ascolto, le sensazioni che questa musica provoca in me e la voglia di provocare le stesse sensazioni in chi legge le cose che scrivo. Si tratta di musica che oserei definire delicata nelle atmosfere, sussurrata più che gridata. Mi riferisco ai Koop, ai Thievery Corporation, agli Zero7 e al progetto Tosca. C’è qualcosa in questo genere di musica elettronica che riesce a smuovere la malinconia che è in me.
(MF) Quando scrivi ascolti musica? E trovi che influenzi più il tuo stato d’animo o il ritmo della pagina?
(GB) Dipende. Non ho una routine definita. Mi capita di ascoltare musica, ma di solito si tratta di pezzi che in qualche modo devono servire da sottofondo e isolarmi dal mondo esterno. Se mi metto a canticchiare la canzone che sto ascoltando allora significa che ho scelto male il tappeto sonoro. Però devo dire che il più delle volte scrivo senza sottofondo e credo che sia una cosa che ha a che fare con l’età e una certa difficoltà a tenere la concentrazione se distratto da stimoli esterni.
(MF) Il tuo racconto inizia al mare, ai bordi di una spiaggia assolata, ma è pervaso da un’intensa sensazione di struggimento, dal presentimento di una disperazione senza uscita che poi, nel corso della narrazione, trova il suo scioglimento. La canzone dei Kemopetrol ha tinte blu, sonorità elettroniche che portano alla notte, al freddo, eppure c’è lo stesso dolore sussurrato. Leggendo poi il loro testo le analogie diventano più evidenti: è bello il gioco di cercare le immagini che hai trattenuto e che si sono incardinate nel racconto. Spesso, quando leggo i testi delle canzoni, mi resta un senso di incompiutezza, di un accenno a qualcosa che non posso capire completamente. E lì resta spazio per la nostra immaginazione e i nostri sentimenti. È anche per te così?
(GB) Ogni canzone, o meglio, ogni buona canzone è, secondo me, prima di tutto un dialogo tra chi l’ha scritta e chi la ascolta e come in tutti i dialoghi che si rispettino è facile che qualche pezzo venga a mancare o che il messaggio venga mal interpretato. A me è sempre piaciuto quell’aspetto della musica che fa sì che la ricezione sia sempre personale, che ognuno di noi ami una canzone per i motivi più disparati. Se ci pensi anche quando leggi un racconto o un romanzo o una poesia c’è una parte di te che dice: non so se ho colto tutti i riferimenti ma quello che ho capito mi piace. E poi magari ti metti a parlare con qualcuno che ha letto lo stesso libro e quando ne parlate vi sembra di aver letto libri diversi. Quando una canzone mi resta dentro di solito significa che c’è qualcosa che mi ha colpito, qualcosa che può essere un’immagine, un determinato gioco sonoro, una strofa o magari l’energia o l’atmosfera che crea.
(MF) Mentre pensavo a questa intervista, mi chiedevo quanti e quali sono i romanzi recenti che hanno la musica come elemento portante della scrittura. Il primo che mi viene in mente è Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia, vincitore del Campiello nel 2019, oltre al classico Alta fedeltà di Nick Hornby. Tu che leggi molto più di me hai in mente altri esempi?
(GB) Di norma non riesco mai a ricordare dei libri in base al tema che trattano. Hai presente quando qualcuno ti chiede di nominargli un libro che parla di insetti e tu al massimo riesci a tirare fuori dal cervello solo la Metamorfosi? Con la musica è la stessa cosa. Al di là dei due che citi tu e che ho letto anche io con molta soddisfazione, mi vengono in mente Beautiful Music di Michael Zadoorian uscito per Marcos Y Marcos che racconta la storia dell’educazione musicale di un bambino a cui muore il padre e Parli del diavolo di Michael Poore edito da E/O, un libro che dà un’immagine di Satana molto interessante. Ne avrò letti di sicuro altri e ce ne saranno molti altri lì fuori, ma al momento questi sono quelli che mi sono venuti in mente.
(MF) Mi regali una canzone di nicchia e una canzone ultra pop alle quali sei legato e che vorresti condividere con chi sta leggendo?
(GB) Per quel che riguarda la canzone ultra pop, pur non essendo sicuro che si possa definire tale, devo dire che sono molto legato a When I’m small dei Phantogram. Ormai la frase “Ho consumato il disco” non si può quasi più dire, ha perso gran parte del suo significato, ma se il gruppo ha guadagnato dagli streaming è anche merito mio. Non stiamo parlando di un capolavoro della musica mondiale, ma si tratta di una canzone che è arrivata al momento giusto e che mi rievoca ricordi molto belli, quelli di quando è nato mio figlio. Per trovare invece una canzone di nicchia bisognerebbe controllare il numero di streaming di ogni canzone che ascoltiamo perché quello che è di nicchia per noi potrebbe essere un successo esplosivo per una fetta di mercato ben definita. Ascolto sempre molto volentieri Bright Nights dei Koop. Si tratta di un pezzo elettronico, uno di quelli che mi trasmettono sensazioni profonde. Al momento ha poco più di 900 mila ascolti su Spotify, ma considerando che la metà saranno miei penso di poterla definire canzone di nicchia.
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Il secondo autore con il quale ho avuto piacere di discorrere – tanto – di musica è Edoardo Ghiglieno.
Edoardo Ghiglieno è uno scrittore ma soprattutto è un frequentatore assiduo di concerti, con un monte ore di ascolti musicali di gran lunga superiore alla media nazionale. Il suo racconto si intitola Perfect Blue Buildings e si ispira alla canzone omonima dei Counting Crows del 1993.
(MF) Come scrittore so che sei più abituato a confrontarti con la forma lunga del romanzo, eppure in questo racconto sei riuscito a condensare la storia di un uomo, schiacciato dalla vita e da incontri che lo hanno solo accompagnato nel suo destino, senza permettergli una deviazione salvifica. Il fatto di aver dovuto scegliere una sola canzone e concentrarsi su questa ti ha in qualche modo aiutato? E come?
(EG) È stata un’esperienza davvero piacevole, anche perché mi è stato chiesto di fare qualcosa che ho spesso desiderato: trasformare le sensazioni e le immagini che scaturiscono dall’ascolto di una canzone in qualcosa da raccontare. L’immaginario legato a questo brano poi, mi accompagna da molti anni ormai e nel tempo ha assunto le forme più diverse. Questa è l’ultima e prende le mosse da una frase che ricorre ogni volta prima del ritornello: “Help me stay awake, I’m falling…”. È storia di un uomo che è caduto troppe volte e si rende conto che non c’è più niente e nessuno che possa aiutarlo a restare in piedi.
(MF) Ho letto il tuo racconto ascoltando la canzone dei Counting Crows è la combinazione è stata letale: ho sentito distintamente sfilacciarsi a ogni paragrafo quel muscolo che chiamano cuore. C’è un certo tipo di musica che ci permette di avvicinarci di più al nucleo della nostra tristezza, di immergerci dentro e uscirne in qualche modo purificati, con un effetto catartico, e così succede a volte anche con la scrittura. Tu, oltre che scrittore, sei anche musicista: trovi che sussista questa analogia tra musica e scrittura? Hanno per te la stessa risonanza?
(EG) Trovo che questa analogia sia molto forte. Spesso, quando parlo di un autore di libri che ho amato e provo a trasmettere quello che provo, ricorro a questa immagine. Penso che la voce di uno scrittore, la sua capacità di raccontare una storia e i propri personaggi, possano produrre lo stesso fenomeno che scaturisce dalle onde sonore di una canzone che ci emoziona e ci commuove. È fisica: qualcosa che entra in assonanza con il nostro essere e produce una risonanza emotiva proprio come le canzoni e le melodie che amiamo di più.
(MF) Nel tuo racconto c’è una struttura con uno schema ricorrente, manca un ritornello ma per il resto ricorda molto la costruzione di un testo musicale. È una scelta voluta in partenza o il ritmo della musica ti ha portato a concepire il racconto in questo modo e poi hai solo assecondato questa direzione?
(EG) Ogni volta che scrivo qualcosa, un racconto o un capitolo di un romanzo, parto sempre da un’immagine, una visione, spesso improvvisa, che mi appare quando penso alla storia che voglio raccontare. Questo racconto è nato così e, una volta delineata la trama, sono arrivate le altre immagini. Non è stata una stesura lineare, ho scritto di quelle visioni e poi le ho montate legandole alla linea narrativa principale. Quindi sì, direi che hai proprio colto nel segno, sembra la genesi di una canzone.
(MF) Spesso i musicisti sono anche scrittori, abbiamo parlato molto insieme di Motel life di Willy Vlautin, hai in mente altri autori o romanzi intimamente legati alla musica?
(EG) Il primo autore che mi viene in mente è Nick Hornby e il suo romanzo Alta Fedeltà che ho adorato. Poi penso a Nickolas Butler e la sua Shotgun Lovesong, altro libro per me epocale, in cui il personaggio di Lee è ispirato dal cantante Justin Vernon (frontman dei Bon Iver) di cui lo scrittore è amico. C’è parecchia musica anche ne Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, romanzo strepitoso a cui è stato meritatamente assegnato il Pulitzer nel 2011. Chiudo con Cristò e il suo Restiamo Così Quando Ve Ne Andate, un romanzo bellissimo e struggente dove la musica è uno dei protagonisti principali.
(MF) Mi regali una canzone di nicchia e una canzone ultra pop alle quali sei legato e che vorresti condividere con chi sta leggendo?
(EG) La canzone ultrapop che scelgo è A Change Of Heart dei The 1975. L’ho scoperta per caso poco più di un anno fa e non sapevo niente di questo gruppo che ho appreso invece essere famosissimo in Italia e nel mondo. Perché mi piaccia così tanto non l’ho mai capito, ma penso che abbia a che fare con il discorso qui sopra sulla “fisica delle emozioni”. Pescare nelle mie nicchie è sempre interessante, ma non è per nulla facile fare delle scelte. Dico Red Sky Radio (Baby Baby Baby) dell’ultimo album degli Elbow. Questo brano è la summa di quello che amo di loro in termini di melodia, armonizzazione ed esecuzione. Loro sono dei musicisti meravigliosi e anche il testo, nella fattispecie, è molto bello ed evocativo.
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Il terzo e ultimo autore con cui ho avuto il piacere di confrontarmi è Carmelo Vetrano.
Carmelo Vetrano è un autore raffinato, dai gusti letterari e musicali mai banali. Suoi racconti sono comparsi su numerose riviste ed è prossimo all’esordio nella narrativa insieme a Laurana Editore. Per Arcana ha scritto il racconto Hawa, legato a Ode to sad disco di Mark Lanegan (2012).
(MF) Un aspetto interessante che è emerso anche solo dall’analisi di questi tre racconti, il tuo e quelli di Gianluigi Bodi e Edoardo Ghiglieno, è il modo personale e diverso con il quale avete interpretato la traccia suggerita dal curatore, Massimiliano Nuzzolo: ti racconto una canzone. Il tuo racconto in particolare mi ha stupito perché all’inizio hai trattato la canzone come un elemento narrativo concreto, quasi fisico: il verso A mountain of nails burn in your hands è ricopiato sullo zaino di uno dei personaggi, poi questa frase diventa sempre più importante, fino a esplodere nel finale. Ti chiedo, ti è venuto spontaneo trattare il tema così o prima avevi valutato altre interpretazioni?
(CV) Fin da subito ho pensato che non volevo parlare di una canzone, ma provare a farla sentire inserendola nel tessuto del racconto. Quando ho immaginato il personaggio di Hawa sapevo che quella canzone faceva parte della sua vita, ma non sapevo ancora in che modo sarebbe entrata nel testo; scrivendo si è chiarito tutto. Non ho valutato altre interpretazioni perché, una volta che ho iniziato a scrivere, canzone, personaggio e tema erano elementi ormai indissolubili tra di loro.
(MF) Ascoltando Ode to sad disco e leggendo il tuo racconto c’è un’apparente frizione tra l’ambientazione dimessa e il suono ricco, stratificato e distorto che accompagna la voce graffiante di Lanegan, eppure ho ritrovato l’esatta sensazione di epicità di quando mi trovo a camminare per la periferia urbana con la musica elettronica sparata nelle cuffiette: mi sono chiesta se sia mai capitato anche a Thomas (anche se confido più in Hewa) e tutto ha avuto più senso, i pezzi si sono incastrati in un puzzle diventato tridimensionale. Pensando all’atto della scrittura, la musica può diventare un’ulteriore occasione di osservazione della realtà? E aggiungendo una colonna sonora ai nostri personaggi ne aumentiamo la credibilità o è un procedimento rischioso?
(CV) Trovo normale che la musica entri in una narrazione perché fa parte della vita. Può essere usata come semplice dettaglio realistico, per dare profondità al contesto e alla storia o per essere la protagonista assoluta. Dovrebbe in ogni caso avere una coerenza con quello che si vuole raccontare, o con il vissuto del personaggio, e non essere usata solo come elemento decorativo. La canzone del mio racconto, più che come una colonna sonora, la vedo come un elemento distintivo del personaggio, come potrebbe esserlo un oggetto o un aspetto caratteriale. È un elemento che a un certo punto, però, supera questa condizione di partenza per diventare un ponte emozionale tra mamma e figlio, un ponte che li unisce e nello stesso tempo li condanna a un destino comune. Alla prima domanda ti rispondo invece dicendo che hai ragione a parlare di un’apparente frizione tra ambientazione e suono, ma per me quella frizione è già dentro la canzone: al suono ricco e pieno di cui parli, si accosta una voce graffiata, scavata, che riflette l’oscillare tra vuoto e pieno dello stato d’animo dei due personaggi.
(MF) Nel tuo racconto ci sono molti dettagli accennati e non spiegati, che contribuiscono a dare profondità alla narrazione senza rallentare la storia. È un aspetto che si ritrova spesso nei testi musicali e che unito alle suggestioni della musica contribuisce a creare un’interpretazione personale dell’ascolto. Per te quanto è importante il testo di una canzone? E ha senso valutarlo disgiunto dalla parte musicale?
(CV) Per me musica e testo di una canzone sono un blocco unico, si influenzano a vicenda caricandosi di intensità e significati che da soli non potrebbero avere. Mi interessa poco fare la radiografia di una canzone, sapere come nasce, o smontarla; mi interessa invece quello che l’artista ha deciso di far uscire dalla sua testa/laboratorio per farcelo ascoltare (tra l’altro, potrebbe anche decidere di far nascere un blocco di sola musica o di sole parole). Comunque, a volte ho provato a separare il testo dalla parte musicale, e spesso mi ha deluso: è come voler separare le stelle dalla notte.
(MF) C’è un’analogia che puoi riconoscere tra la musica che ascolti e il tuo stile di scrittura? Ci sono artisti che più di altri influenzano il tuo modo di narrare?
(CV) Mi è sempre piaciuta l’idea di farmi influenzare dalla musica che ascolto, provare a trasferire sulla pagina ritmo ed energia di una canzone, o di un gruppo che amo, ma è un processo che razionalmente non sono mai riuscito a fare; se in quello che scrivo ci sono influenze musicali sono inconsapevoli. Credo comunque che gli ascolti trovino lo stesso una loro strada per arrivare sulla pagina, ma che lo facciano prendendosi del tempo per farsi metabolizzare, scomparire nelle cellule della nostra mente e riemergere attraverso un’altra forma di vita. Non per forza la musica che si ascolta in un certo periodo influenza quello che si sta scrivendo in quel momento; magari lo farà a distanza di mesi o di anni.
(MF) Mi regali una canzone di nicchia e una canzone ultra pop alle quali sei legato e che vorresti condividere con chi sta leggendo?
(CV) Dare avere, Marco Parente. Walk this way, Run DMC.
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I tre racconti citati li potete trovare nella raccolta Ti racconto una canzone A.A.V.V. a cura di Massimiliano Nuzzolo, in collaborazione con Eleonora Serino, uscito a febbraio 2022 per Arcana editore.
Restiamo così quando ve ne andate è il terzo romanzo di Cristò che leggo. Prima sono venuti La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, sempre per Terrarossa edizioni, e La carne, nella nuova edizione Neo.
Capita sempre infatti che quando incontro un autore che mi colpisce – per stile, per voce e per universo narrativo – con pazienza inizio a leggere tutte le sue opere, sperando di ritrovare e individuare quei caratteri che lo rendono unico e che rendono così speciale la sua lettura.
Non sono ancora sicura di aver compreso tutti gli ingredienti dell’incantesimo narrativo di Cristò, ma di certo so che è in grado di individuare quegli elementi che a un tratto, spesso all’improvviso, superano il confine letterario per arrivare dritti in qualche punto vitale dell’anima e farla vibrare.
E succede così che la lenta costruzione del personaggio di Francesco, che ci parla in prima persona nelle prime tre parti del libro (giorni, ore, mesi), ci tenga avvinghiati alla narrazione con spirali sempre più larghe che partono da uno di infiniti spinelli nella stanza delle esperienze estatiche e ipnotiche, da un uomo di quarant’anni che cerca di sfuggire alla disperazione di una vita che non ha deciso, distraendosi con hashish e social network. Il protagonista potrebbe sembrare il solito inetto alla vita, ma a poco a poco, tra le volute di fumo, si delinea un carattere integro, con una forte consapevolezza, schiacciato da un destino che lo sovrasta. Anche in questo romanzo di Cristò torna il tema politico, la sensibilità alla realtà attuale, che entra di sguincio e poi diventa elemento cardine della narrazione, senza manifesti ma con solo la forza dei suoi effetti sui personaggi.
Io non ho quasi più nulla di pulito: non sono puliti i miei vestiti, non è pulita la casa in cui vivo, non è pulito il cibo che mangio, non è pulito il sesso che faccio, non sono puliti i miei polmoni, non è pulita la musica che suono, non sono pulite le soluzioni che riesco a immaginare. Dovrei fare un bagno nella varechina e appendermi sui fili di ferro a far sgocciolare la sporcizia.
A fare da contrappunto alla voce di Francesco, c’è una prima persona plurale femminile, all’inizio indefinita e che poi prende sempre più spazio e forma, fino a occupare tutta la quarta parte, ridisegnando la storia che avevamo imparato a conoscere e che dà il titolo al romanzo.
Non possiamo fare altro che aspettare in silenzio quando ve ne andate. Non possiamo che tornare nel letargo della vostra assenza. Possiamo fare solo così. Sappiamo che non tornerete, ma anche che tra qualche tempo non ci ricorderemo più di voi.
Si tratta di una presenza costante, appena inquietante, dall’aspetto minaccioso ma con una tenerezza profonda, simile ai fantasmi e agli zombie di altre opere dell’autore. Mi chiedo così cosa sia davvero il fantasma per Cristò, questa presenza irreale che sa influire sulla realtà in maniera decisiva, questo elemento che ricorda il realismo magico, familiare eppure sconosciuto. Non credo sia solo un artificio narrativo, quanto una lente con cui guardare il mondo, agirlo e trovare nuove parole per descriverlo.
E le parole che usa Cristò sono sempre esatte, misurate, descrittive. La lettura scorre ritmata, veloce, a 87 battiti al minuto, appena più veloce di un sano battito cardiaco, come viene ripetuto più volte parlando dei ritmi della musica e dell’amore. Perché altri due temi fondamentali di questo romanzo sono la musica – Francesco è un pianista, un compositore, come lo è anche l’autore – e l’amore – di Francesco e Monica, Monica e Giulio, Francesco e Fatima. Cristò è bravissimo a scrivere di amori struggenti, complessi, impossibili per i tempi malaccordati, e ci innamora insieme ai suoi personaggi. La musica poi diventa nel corso del romanzo un elemento sempre più essenziale per il protagonista, ed è sempre bello quando uno scrittore riesce a metterla in parole (penso anche ad Andrea Tarabbia con Madrigale senza suono) e mi rendo conto una volta di più di quanta bravura ci voglia per far sentire a chi legge, per trasformare la complessità di una partitura in narrazione, cosa che a Cristò riesce benissimo.
Verso la fine Francesco ritorna alla sua ossessione che ci sia qualcuno che stia scrivendo la sua storia (un gioco metaletterario che ricorre più volte nel romanzo) e ne immagina i diversi finali. Tra i tanti, l’ultimo dice così:
Finale numero cinque: potrei fare l’amore con Fatima sempre più spesso, mandare all’aria tutti i progetti con Monica, chiudermi in casa a scrivere musica, a dare corpo alla Creatura. Sarebbe un finale prevedibile, sarebbe un finale bellissimo. Invece la verità è che continuo a stare inerte in questa casa fatta di stanze che continuo a battezzare con nuovi nomi, ma che era qui prima di Fatima, di Monica, di me e che ci sarà anche dopo tutti noi. Questa è una vita qualsiasi in una casa qualsiasi. Non fa bene e non fa male; questi fatti non sono buoni né cattivi. Qui le cose succedono e non c’è niente da fare.
Ma se volete sapere come finisce veramente il romanzo, dovete leggerlo.
Restiamo così quando ve ne andate (2018) di Cristò per Terrarossa Edizioni.
Per leggere I gatti non hanno nome di Rita Indiana (NN editore) ho preso in mano più volte il cellulare. La curiosità patologica è un difetto di difficile gestione e così, invece di leggere il libro tutto di un fiato, mi sono trovata a ripassare nozioni di geografia, guardare video musicali, scrivere brevi racconti in prima persona e farmi domande sulla Vita e l’Universo.
Il libro è uscito in febbraio e già trovate numerose recensioni in giro per la rete. Non le ho ancora lette e quindi non sono state loro a condurmi qui quanto un club del libro a cui non riesco a partecipare (booklab della libreria Limerick) e una copertina che mi affascina e inquieta ancora adesso.
Il primo approccio è stato una scarica di stimoli. La narrazione è in prima persona, quella di una ragazzetta adolescente che in maniera non lineare, attraverso piccoli episodi, riflessioni, ricordi e suggestioni musicali, ci racconta la sua estate nella clinica veterinaria dello zio Fin, la sua amicizia con l’haitiano Radames e la presa di coscienza della sua sessualità mentre il mondo attorno a lei prende sapore e sostanza.
Questa realtà caraibica è così luminosa da sembrare nera. Miseria e ricchezza si accompagnano, dominicani e haitiani dividono la stessa isola ma un destino diverso. I confini tra reale e magico, tra pazzia e sanità sono cancellati e riscritti nella polvere, e le parole di Rita Indiana sono sonore, in un linguaggio fresco e immaginifico che costruisce strati di suggestioni.
L’effetto è straniante: familiare eppure lontano, semplice ed estremamente complesso. Personaggi e situazioni che sembrano isolati, sbocciati dal caos e destinati a perdersi, acquistano peso e alla fine del libro ci troviamo di fronte a un’opera compiuta e conclusa.
La mamma di Zia Celia è morta qualche anno fa ed era una donna molto simile a sua figlia, con un cuore enorme ma di pietra, sul quale i nomi della gente cui si affezionava restavano incisi per sempre, ma tutti gli altri, me compresa, rimbalzavamo sul freddo granito con un rumorino di biglie rotte.
Da quando ho cominciato a lavorare qui ho visto di tutto. Boxer zoppi chiamati Windsor, husky siberiani con dermatiti acute, pappagalli il cui becco era stato divorato da una specie di fungo conosciuto solo in Tasmania, gatti d’angora che, dopo aver visto Il settimo sigillo di Bergman, hanno la mania di svegliare regolarmente i loro padroni alle tre e trentatré del mattino, terrier anoressici, collie in miniatura addestrati a marciare al ritmo della Patetica di Beethoven, chihuahua che si credono minotauri, rottweiler con complessi di colpa e scimmiette entrate di contrabbando grazie a un danese che portava le valigie a Janis Joplin. A volte i padroni dei pazienti stanno peggio dei loro animali e bisogna dargli un bicchier d’acqua a cantare una canzoncina. Zio Fin ne fischia una mentre visita i suoi pazienti e io credo sia più per calmare i padroni che le bestie.
Note sparse:
L’autrice, Rita Indiana, è un’artista eclettica: oltre ad essere scrittrice (Ruminantes, Ciencia succión, Papi e il nostro Nombres y animales) è anche leader di una band di merengue alternativo (Rita Indiana y los Misterios) che innesta sul tradizionale merengue dominicano sonorità elettroniche e rock. Qui un esempio dove vedete la nostra Rita in azione. Di sicuro un personaggio interessante e vulcanico.
Rita Indiana
Joe Cruz
La copertina del libro è un’elaborazione di un’opera di Joe Cruz. Date un occhio ai suoi lavori, io li trovo molto interessanti, forti eppure semplici, molto evocativi. Una scelta in linea con lo stile di Rita Indiana.
Santo Domingo è la capitale della Repubblica Dominicana, uno stato che occupa due terzi dell’isola di Hispaniola Grandi Antille, mentre nelll’altro terzo c’è Haiti, uno dei paesi più poveri delle Americhe.