Azzorre di Cecilia Giampaoli – una lettura personale

Mi ricordo che era l’inizio dell’estate del 2020, iniziavano i primi cenni di ripresa dalla pandemia, si tornava a respirare e usciva Azzorre di Cecilia Giampaoli, edito dalla Neo.

Un volto intenso in copertina, ritratto dell’autrice da ragazzina, un nome evocativo, di un arcipelago che sogno da anni di visitare, l’editing curato da un caro amico. Avrei dovuto leggerlo subito ma non mi sentivo pronta: avevo paura di incontrare un dolore conosciuto e non volevo.

Poi, qualche mese fa, sono stata a Borghetto, a una fiera dell’editoria indipendente, ho incontrato il caro amico, ho preso il libro, me lo sono fatto autografare da lui, perché ero orgogliosa del suo percorso, e l’ho appoggiato tra i libri da leggere, in attesa.

Il romanzo è un memoire, racconta in prima persona il viaggio che l’autrice ha voluto fare a Santa Maria, un’isola delle Azzorre dove, l’otto febbraio del 1989, si schiantò un boeing con 144 persone a bordo, nessun sopravvissuto, nemmeno suo padre.

Cecilia Giampaoli, a una svolta importante della sua vita privata, decide che è il momento di partire per quel luogo che ha cambiato la vita della sua famiglia.

Il romanzo nasce dal diario di quel mese, dalla distillazione delle riflessioni e delle memorie di quei giorni, fatti di incontri, camminate, epifanie. Il linguaggio di Giampaoli è allo stesso tempo poetico e disincarnato, si sofferma a descrivere la qualità della luce e a tratteggiare in poche righe ritratti precisi delle persone che le raccontano la loro verità su quei giorni.

Il cielo è di tempera azzurra fra il gesso bianco delle nuvole e quello delle case. Per non perdermi cerco punti di riferimento a ogni incrocio. Fra le case e la terra c’è un equilibrio diverso da ogni altro luogo che abbia visto. Non credo si possa dire che siamo in campagna perché a Santa Maria la città non esiste. La natura entra ed esce dal paese e lentamente si riprende gli edifici disabitati senza che nessuno ci faccia caso. Quattro sedie sbiadite all’entrata di un bar. Un vecchio e una ragazza stanno in piedi ai lati della porta.

Non è un’inchiesta la sua, non è la ricerca della verità: è una pacificazione. Per lei, che all’epoca dei fatti aveva solo nove anni, conoscere le persone che erano presenti sull’isola il giorno del disastro aereo, ascoltare le loro storie, la loro interpretazione, vedere, toccare i rottami dell’aereo ancora presenti sul luogo dell’impatto, significa dare materia e realtà a un evento mitico, orribile e misterioso allo stesso tempo.

Non c’è indulgenza all’autocommiserazione, nei momenti più intimi la scrittura si allontana, pone un filtro per non sporcare con emozioni scomposte il lavoro di documentazione che l’autrice vuole fare, per sé, per la sorella, per la madre, con le quali rimane in contatto, alle quali porta un germoglio di quella foresta che ha inghiottito il loro uomo.

Percepisco il limite. Nella testa c’è un confine preciso, un recinto dentro il quale è bene restare. È uno spazio abbastanza grande per contenere la coscienza delle cose e tutte le emozioni sostenibili. Il panico, la fobia, la pazzia e la depressione ruminano là fuori in attesa che tu metta il piede sulla staccionata.

Non c’è rabbia, né verso un dio né verso gli uomini, piuttosto accoglimento: di ogni invito, di ogni cibo, di ogni storia. Come a riempire quel vuoto incolmabile che si è creato.

Mi aspettavo un romanzo diverso, più lacerante, invece ho trovato il racconto di un viaggio, reale e metaforico, difficile e avvincente, una vera storia raccontata da una voce onesta e limpida.

Se mi sono decisa a leggerlo in questi giorni c’è un motivo: la prossima domenica sono trentanni che è morto il mio di padre e mi è sembrato un modo per onorare il mio patto con il dolore.

Trovare nelle righe scritte da un’altra figlia, un’altra bambina, i pensieri e le immaginazioni che ancora adesso si susseguono, è stato doloroso e confortante. Ha dato consistenza alle sue pagine e al mio lutto.

A un certo punto una donna scortese le dice che deve lasciare in pace gli altri e elaborare il lutto e lei si arrabbia per la prima volta. Lo capisco: è come se ci venisse chiesto di dare una scadenza al dolore. Ma non è possibile perché è su quel dolore che si è fondata la nostra essenza e rifiutandolo dovremmo negare una parte di noi stesse.

Non sono venuta per riportare in vita mio padre, il passato è passato e non si può rifare, ma ho un conto aperto con questo posto. Nel male e nel bene, sarei diversa se non fosse successo. Non sarei io.

Noi siamo anche il nostro dolore, la nostra mancanza. Accettarlo non vuol dire metterlo da parte, piuttosto trasformarlo: in motore, in scrittura, in amore.

Azzorre (2020) di Cecilia M. Giampaoli. Neo edizioni.

Acari di Giampaolo G. Rugo. Luminosa malinconia settembrina.

Se dovessi scegliere il mese più adatto per leggere Acari, esordio letterario di Giampaolo G. Rugo, sarebbe settembre, con le giornate dorate che invitano alla riflessione, la cesura tra la promessa dell’estate e i doveri dell’autunno, la saudade che si confonde con il pulviscolo dell’aria.

Si tratta di racconti che si susseguono dolcemente, alternando prima e terza persona, con pennellate dialettali più o meno intense, personaggi che si affastellano uscendo dallo sfondo per affacciarsi in primo piano. Ci si abbandona fiduciosi alle storie semplici e appena improbabili di una Roma intima, fatta di ragazzi, donne e uomini che intrecciano le loro vite in un tempo indefinito, ora passato ora presente, in un andirivieni appena accennato.

Il primo racconto, brillante, parla di un inganno: una donna centenaria che ogni anno festeggia il suo compleanno in una trasmissione televisiva, fingendosi svampita e fragile, in una farsa concordata su cui si regge un copione rodato. Si susseguono poi le storie di ragazzi delle superiori che vanno a trovare un amico in ospedale; un padre e un figlio che vanno a scegliere i regali di compleanno in un grande centro commerciale; storie di calcio, di aspirapolveri, di cimeli nazisti; Gimbo e Mario e Franco, e su tutti Claudia, che si imprime nella retina come la coda di una cometa.

Il sole è sulla linea del mare, poi, come sempre, tramonta. Restano ancora un po’ a guardare l’arancio infuocato del cielo diventare blu scuro. Prima di rincasare deviano sulla spiaggia ormai buia, camminano sulla battigia stando attenti a non bagnarsi, fino a quando le luci del pontile sono lontane. Si dispongono uno a fianco all’altro davanti al mare, si slacciano i pantaloni e pisciano. All’orizzonte si vedono le luci dei pescherecci usciti al calar della sera. Chissà cosa pensano d’inverno, i pescatori, quando è notte e il mare è nero e freddo.

Alla sorpresa, all’ironia, alla leggera cattiveria che sembra connaturata alla vita stessa, Rugo sa sovrapporre un sentimento malinconico, all’inizio appena accennato e che poi cresce durante la lettura, lasciandoci feriti a ogni racconto, increduli di avergli permesso di toccare sentimenti così intimi da risultare a volte sconosciuti persino a noi stessi.

Trasforma l’amarezza in uno struggimento così tenero che è inutile opporre resistenza.

Quando poi, dopo pochi racconti, ci si accorge di essere di fronte a un vero romanzo di racconti, dove ogni brano è un tassello del mosaico che abilmente l’autore compone sotto i nostri occhi, lì esplode l’ammirazione per Rugo e le sue doti narrative, che non hanno bisogno delle stampelle di artifici o fuochi artificiali ma si affidano ai personaggi, alle loro voci, a un’ambientazione discreta e pervasiva.

Acari è stata una bellissima sorpresa, di quelle a cui ci hanno abituato i tipi di Neo, capaci di regalarci sguardi nuovi su sentimenti eterni.

Acari (2021) di Giampaolo Rugo. Neo edizioni, 2021, 192 pp. Racconti.

Beati gli inquieti di Stefano Redaelli – un affaccio sul mondo dei folli

Stefano Redaelli è un uomo gentile, dallo sguardo buono e appena sfuggente. Parla in modo pacato e preciso, sorride spesso, e potrebbe addirittura sembrare innocuo. È quello che racconta che è rivoluzionario, addirittura incendiario, e si capisce perché la Neo. edizioni abbia scelto di pubblicare Beati gli inquieti, un libro in cui “Poesia, follia e spiritualità convivono nel romanzo come tre sorelle”.

Antonio, il protagonista, si propone come ricercatore universitario e il libro come il racconto di una ricerca sulla follia che trova la sua naturale continuazione in un ricovero fittizio alla Casa delle farfalle, una struttura psichiatrica in cui avrà modo di osservare e conoscere da vicino i folli.

La narrazione prosegue presentandoci alcuni degli ospiti della struttura: Carlo e Simone, i suoi compagni di stanza, Angelo, il solitario ossessionato dal deserto e dalla FBI, Cecilia e le sue poesie, Marta e i suoi fiori immaginari. Ci sono poi Alessandra, l’infermiera, e la dottoressa, la direttrice che accorda l’ingresso ad Antonio e con il quale instaura un rapporto di forte antagonismo.

Potrebbe essere un romanzo lineare se fosse tutto qui invece, durante la lettura, si susseguono continui cambi di registro, leggere deviazioni dalla traiettoria, alternanze di punti di vista, in una struttura che lascia spiazzati e insinua il dubbio sull’attendibilità del narratore. Per una lettrice come me, che ha bisogno di conoscere la direzione, prevederla e ogni tanto essere colta alla sprovvista, leggere questo romanzo ha significato abbandonarsi alle parole, lasciarsi cullare da un leggero moto ondoso che può portare alla deriva o arenare su una spiaggia deserta. Bisogna quindi lasciarsi prendere per mano, fidarsi e affidarsi allo scrittore, che sa benissimo quello che fa e conosce le regole del gioco narrativo che ha creato. C’è invenzione, c’è una profonda bellezza, ma soprattutto una profondità vertiginosa da cui scaturiscono dubbi e intuizioni.

Stefano Redaelli, un dottorato in fisica e uno in letteratura, uno studio su religiosità e follia che lo accompagna da moltissimi anni, è riuscito in questo romanzo a dare forma e voce a una realtà che è di per se stessa frammentata e difficilmente narrabile, anche dai suoi stessi attori. Ci sono in questo testo un profondo amore e rispetto per i folli, gli inquieti, che saranno beati. E qual è poi questa distanza tra i sani e i folli? A volte è solo un bivio sbagliato, un accadimento esterno, che ci possono portare a una Casa delle farfalle, una fatica di adattarsi a una società che cannibalizza i suoi elementi e tende a escludere chi troppo sente, chi troppo capisce.

Redaelli ci chiede di ascoltare.

E ascoltare, senza per forza capire o comprendere completamente, non è facile. Ma è necessario ed è un impegno al quale il corpo sociale ha derogato troppo spesso. Prima c’erano i manicomi, ora cosa resta? Chi segue la sofferenza psichiatrica e come? Non posso non pensare a persone che ho conosciuto, a reparti che ho intravisto, ai pozzi di dolore che si spalancano impossibili e alla bellezza infinita di un pensiero, di un gesto. Cosa possiamo fare di fronte a questo? La risposta che sembra suggerirci Redaelli è che i matti si salvano da soli, insieme, perché solo tra loro si possono riconoscere e comprendere. Noi non possiamo che restare ad ascoltare, sperando di trovare cuori aperti quando capiterà a noi di perderci, di incagliarci nella definizione della nostra identità. DI-IO.

Penso al terreno da preparare quando si scrive; piuttosto un lavoro che si subisce: è la vita a dissodarci, ad affondare colpi, a livellarci a terra. Sembra un deserto da cui non nascerà mai niente.

“Quando il terreno è pronto, puoi seminare. La semina è bella, Antò, la facevamo insieme alle donne, spargevamo i semi lungo il campo per fasce di un metro, un metro e mezzo. Prima in una direzione, poi nell’altra”.

Mi fa vedere come si fa con un gesto ampio del braccio. Sembra il movimento di una danza.

“Poi devi passare il rastrello in superficie per interrare i semi e il rullo per farli aderire. Se no, non cresce niente. Poi devi bagnare il terreno con il tubo, Antò, tutti i giorni lo devi bagnare, senza esagerare. Poi quando vedi la prima erba è una sensazione bellissima. La devi far crescere due o tre centimetri, tutti i giorni la devi bagnare. Quando arriva a sei, otto centimetri, fai il primo taglio. Allora il prato è pronto”.

La stessa cura richiede la scrittura.

Le parole devono attecchire; una storia va nutrita, tutti i giorni, bisogna chinarsi, sudarci sopra.

Beati gli inquieti (2021) di Stefano Redaelli. Neo. edizioni febbraio 2021.

Quattro soli a motore di Nicola Pezzoli

Quattro soli a motore è stato pubblicato nel 2012 dalla Neo edizioni ed è il secondo romanzo di Nicola Pezzoli. La storia, al limite tra noir e romanzo di formazione, parla dell’estate tra le elementari e le medie di Corradino, un ragazzino che ci racconta in prima persona il suo piccolo mondo a Lavinio prima e Cuviago dopo, nella Lombardia occidentale.

Se non vi piace Corradino, chiamatemi come vi pare. Solo vi prego non chiamatemi Scrofa. Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni. Tanti ne avevo nel 1978, l’estate che divenni un assassino. Quell’anno accaddero cose che ancora mi fanno tremare e che adesso proverò a confidarvi. Possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso. Perché una parte di me continua a pensare che i fatti si sono svolti così, che non si è trattato di pure coincidenze, e nessuno mi convincerà mai del contrario.

Inizia così il romanzo e subito la scrittura si fa coinvolgente e sicura. Pezzoli è bravissimo a raccontare, aggiunge personaggi, elementi e situazioni con naturalezza, facendoci accomodare nella poltrona più comoda e divertendosi a dosare con impeccabile ritmo risate, commozione, paura e indignazione, senza che un ingrediente sovrasti e copra gli altri.

La prosa, in apparenza semplice, in realtà è scoppiettante di giochi di parole, allusioni, descrizioni elegiache, commistione di registri dall’aulico, al tecnico, al colloquiale al dialettale. Sempre si avverte in sottofondo la profonda padronanza della parola, la cura con la quale riesce a rendere il racconto di Corradino leggermente scanzonato, dolceamaro, tenero e crudele, in un equilibrio tra opposti, tra commedia e tragedia, qual è la preadolescenza.

Bisogna però sforzarsi per apprezzare la bravura stilistica, perché il cuore è tutto preso dalle vicende del caro Corradino, un ragazzino come tanti ma dalla sensibilità e fantasia eccezionali. Non è una vita facile la sua, con un padre soprannominato Videla come il dittatore argentino, una madre dolcissima che annega la sua disperazione nel bicchiere, una zia arpia e una serie di minacce più o meno reali che compongono un personalissimo pantheon di divinità pericolose: il cane nero dei vicini, il bullo Glauco che lo marchia con il soprannome Scrofa, il misterioso Kestenholz, la De Ropp, lo stegosauro del calorifero, Amenhotep.

Il Cane Nero era una belva senza nome, di medie dimensioni e razza indefinita. Passava la vita legato a una catena in mezzo all’aia, abbaiando e sbavando e mostrando i denti a tutto quello che vedeva. E se tu stavi lì da quelle parti e facevi qualcosa di strano o ti agitavi un po’ troppo (magari ti soffiavi il naso), anche il Cane Nero si agitava e la catena si tendeva all’inverosimile fin quasi a strangolarlo. Allora saltava fuori la signora Beatrice con una frase che per me era la sintesi del panico puro: “SE MOA ‘L CAN!” diceva.

Corradino tuttavia mantiene la sua innocenza bambina, osserva il mondo dei grandi con occhio acuto e attento, si dedica a giochi e avventure intense con il suo amico Gianni, ci racconta di un mondo intimo su cui ombreggia la storia contemporanea (le Brigate Rosse) e passata (le guerre mondiali), dando l’occasione all’autore per esprimere tutto il suo disprezzo per i potenti e tutta la comprensione e l’affetto per i più deboli. Interessante poi come si innesti a un certo punto una narrazione di fantascienza, che procede alternata alle vicende di Cuniago, e il rapporto stretto e più volte dichiarato nel romanzo con uno dei racconti di Saki “Sredni Vashtar”.

Il racconto di Saki “Sredni Vashtar” è un filo rosso che accompagna tutto il romanzo

Sembra quasi impossibile quando arriviamo alla fine del romanzo che tutti i fili apparsi in maniera più o meno evidente trovino la loro giusta collocazione, che ogni nodo venga sciolto con naturalezza, ed è divertente tornare indietro per controllare e scoprire che sì, era tutto lì, un sistema complesso e perfettamente funzionante in ogni dettaglio e noi alla fine non possiamo che volere un bene dell’anima a Corradino e abbracciare idealmente lui e la Ciopy, senza aver ancora capito se sono stati più i sorrisi o le lacrime durante la lettura.

Quattro soli a motore di Nicola Pezzoli. Neo edizioni.