Sette anni di Diari Alaskani

Il primo post di Diari Alaskani: la foresta pluviale

Sette anni fa, il 19 luglio 2012, ho registrato questo blog su WordPress, appena rientrata da un viaggio di tre settimane tra Alaska e Canada. La mia intenzione era raccontare un’esperienza che mi aveva dato molto, fissare con le parole i paesaggi, le persone e le esperienze vissute. Credo di essermi fermata ai primi due giorni di viaggio: non riuscivo a trovare una voce per raccontare in modo non didascalico quelle terre meravigliose.

Il blog però era fatto e mi è sempre piaciuta l’idea di avere un angolo di web dove dire la mia, con i miei tempi e i miei modi. Sono rimasta ferma a un’esperienza di blogging vecchia maniera: dal taglio personale, indifferente al traffico generato, senza fini commerciali o promozionali. Una visione un po’ romantica, un po’ anacronistica, in mezzo a tanti blog condotti a livello professionale o molto settoriali.

L’idea di partenza si è evoluta velocemente dallo scrivere del viaggio in Alaska, a scrivere di quello che facevo (soprattutto visite, mostre, concerti) fino ad arrivare a parlare dei libri che avevo letto e che mi avevano in qualche modo colpito. Scrivendo di romanzi mi sono così trovata a frequentare una community di blog letterari davvero belli, alcuni ancora attivi, altri silenti, altri che si sono evoluti nel tempo. Sono stati anni molto arricchenti in cui ho imparato ad ampliare i miei orizzonti letterari, a cercare di capire di più di quello che leggevo e soprattutto a cercare una voce personale per scrivere di una delle mie grandi passioni che è la narrativa.

A un certo punto il blog ha subito un arresto: dai cinquanta articoli all’anno sono passata a pubblicarne giusto un paio. Perché? La maternità ha spostato il nord della mia bussola, ha rivoluzionato tempi e spazi, ho dovuto cercare nuovi equilibri e il blog è stato sacrificato al recupero delle ore di sonno perdute. Ho pensato se chiuderlo, archiviare quello che era stato, ma non ne ho avuto mai il coraggio: è sempre stato una finestra aperta sulla mia mente e in fin dei conti sapevo che né lui né i lettori più affezionati se la sarebbero poi presa.

Infine, negli ultimi due anni, una nuova svolta: la scoperta della scrittura di storie. Scrivere mi è sempre piaciuto, non avrei tenuto blog per più di quindici anni se non fosse così, ma non credevo di poter creare qualcosa di mio. Ho provato, ho studiato, sto provando, sto studiando. Non ho un vero obiettivo: è il puro piacere di scrivere e farlo nel modo migliore possibile, quando il tempo e lo spazio si alleano per consentirmelo.

La scrittura ha portato nuovi amici, nuovi incontri, nuovi libri.

Ha rivoluzionato la mia vita.

E anche se non espongo i frutti tangibili di questo lavoro, so quanto ha significato e significa per me, perché, come sempre, il giudice più implacabile sono io e e con l’esercizio della scrittura ho scoperto che riesco a blandirlo, ipnotizzarlo, ed è una magia a cui non posso più rinunciare.

La mia gatta Alaska

Le affinità elettive

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Ci sono alcuni romanzi che per anni occhieggio sugli scaffali della libreria, in un corteggiamento muto ed esitante, fatto di pagine sfogliate, brevi assaggi e rinunce.

Certi libri vanno letti al momento giusto, nella condizione d’animo più pertinente, altrimenti ci si imbatte in una ingiusta delusione.

Le affinità elettive di Goethe è uno di questi.

Acquistato alla fine delle superiori, mi ha accompagnato in due traslochi e in almeno in un paio di viaggi. Sempre con scarso successo.

Un paio di settimane fa, mentre esitavo sulla scelta della prossima lettura, momento terribile e divino insieme, ho deciso di buttarmi.

Non è stata una lettura agevole, costellata di numerose interruzioni che forse non mi hanno permesso di apprezzare appieno un romanzo così importante dell’Ottocento.

La trama è ai più nota: siamo in Germania, ambiente nobiliare, Carlotta ed Edoardo sono una coppia di sposi che accoglie nella sua dimora l’amico di lui, il Capitano, e la pupilla di lei, Ottilia, andando a guastare irrimediabilmente gli equilibri preesistenti. Prendendo a prestito dalla scienza il fenomeno chimico dell’affinità elettiva, Goethe lo applica ai rapporti umani: gli elementi affini, quando entrano in contatto, sono destinati a separarsi dagli elementi con cui erano uniti per creare un nuovo legame tra di loro.

Come i Dolori del giovane Werther, anche quest’opera di Goethe non mi ha appassionato. Mi infastidiscono la descrizione della passione esagerata, senza controllo, romantica (nell’accezione ottocentesca) di Edoardo, la quieta rassegnazione di Carlotta e del Capitano, l’eccesso spirituale di Ottilia. Non ho amato nessuno di questi personaggi. La loro visione dell’amore e della passione amorosa è troppo lontana dalla mia, ha un che di categorico ed adolescenziale che mi urta. I protagonisti sono schiavi della loro individualità, incapaci di trovare un dialogo o un compromesso. Come scrive lo stesso Goethe per bocca di Mittler, il mediatore, è più facile far ragionare le anime semplici che i nobili, troppo istruiti, troppo impregnati del bel mondo.

Le Affinità elettive sono ricche di temi e spunti: la dualità tra ragione e sentimento, tra uomo e natura, in un continuo tentativo di prevalere uno sull’altro; ci sono le bellissime descrizioni di paesaggi e degli interventi dell’uomo su di essi; analisi dei caratteri e della società.

E’ un romanzo complesso e affascinante, anche se certe pagine le ho trovate pedanti, ma il giudizio complessivo è buono. Il che mi fa un po’ ridere perché si tratta pur sempre di un classico e bisognerebbe forse approcciarlo con più istruzione, ma questa non è una recensione e io non sono un critico letterario. Scrivo solo alcune impressioni in maniera sciolta, per il piacere di parlare di letture, anche ostiche, cercando di evitare l’effetto tema in classe. Non sono più al liceo, per fortuna!

Ora mi resta da assaporare l’indecisione della prossima lettura. Che bello!

 

La camera azzurra – un delitto nato dalla superficialità dei sentimenti e dalla violenza della passione

la camera azzurra

Leggere la camera azzurra è stato come buttare giù in un sorso un bicchiere di acqua fresca. Solo che quella che sembrava acqua in realtà era grappa e finita la lettura brucia ancora nella mente e nella gola.

Il racconto inizia nella camera azzurra di un albergo. Due amanti dopo il sesso si scambiano poche parole. Non diamo loro molto peso, e nemmeno Tony comprende in quel momento la loro importanza. Mano a mano che la storia avanza e il quadro si allarga, quelle pochi frasi, ripetute ad ogni interrogatorio, sviscerate da diversi punti di vista, diverranno il cardine del delitto, espressione del movente e della colpa.

La scrittura di Simenon è sublime: non solo lo stile è asciutto e completo, ma la regia con cui dirige la storia riesce a dare accenti sempre diversi al racconto. Una storia semplice alla fine, ma il taglio che le dà l’autore la rende innovativa e avvincente e non possiamo chiudere il libro se non arrivati alla fine. Un finale che in poche righe ha confuso i miei sentimenti nei confronti dei protagonisti e ha posto un accento ancora più drammatico sulla natura umana, così superficiale, così colpevole.

La camera azzurra (La chambre bleue) di Geroges Simenon, prima pubblicazione 1964, traduzione Marina di Leo, edizioni Adelphi, anno 2013, 153 pagg.