American Psycho di Bret Easton Ellis

Leggere capolavori di questo livello nuoce gravemente all’autostima di chi vorrebbe scrivere, soprattutto quando l’abilità narrativa e stilistica dell’autore sono al servizio di una storia e di una voce potenti.

American Psycho è un romanzo di denuncia di un mondo, quello degli yuppie anni Novanta, superficiale e dedito a un edonismo annoiato e amorale. Patrick Bateman è un ricco figlio di papà, educato nelle migliori scuole, AD di una delle imprese finanziarie di famiglia. Bello, elegante e schiavo di questa bellezza ed eleganza alle quali dedica una cura maniacale, passa le sue giornate tra lavoro (poco), palestra, ristoranti di lusso, alcol, droga e belle donne. Si muove in una New York frenetica, punteggiata di emarginati e cartelloni di spettacoli teatrali – il musical Les Miserables insiste sulle pagine come una nota battuta. Il suo è un mondo dorato di cui conosce le regole e nel quale è considerato il classico bravo ragazzo, dall’abbronzatura perfetta ed esperto di stile: a lui puoi chiedere come abbinare un paio di calzini, se il gilet è ancora di moda, come indossare un fermacravatta.

I primi capitoli ci proiettano in un eterno giorno della marmotta, dove tutti sono interscambiabili, nessuno ti ascolta davvero, conversazioni futili e uguali a se stesse si ripetono in locali sempre nuovi, dove scorrono abiti di lusso, piatti elaborati, corpoduro, cocaina e alcol. Bateman è quasi ridicolo nella sua incapacità di comunicare, nel suo essere costantemente travisato, nella continua frustrazione dei suoi desideri (prenotare un tavolo al Dorsia!), nella sua insicurezza rispetto a un aspetto esteriore che per lui è l’unico mezzo per rapportarsi agli altri, solo valore insieme ai soldi. Farebbe quasi pena se non fosse che le iniziali crisi di rabbia, la totale mancanza di empatia, il disprezzo per i barboni, lo snobismo spinto sono solo l’anticamera di una personalità folle.

Christian Bale interpreta Patrick Bateman nella trasposizione cinematografica del romanzo (2000).

“È il ragazzo della porta accanto, non è vero tesoro?

– No che non lo sono, – bisbiglio tra me. – Sono un malvagio psicopatico, io, cazzo.”

La bravura di Ellis è infatti quella di introdurre l’orrore gradualmente, di inserire elementi stridenti per poi annegarli in un mare di noia e dettagli, portandoci sempre più a fondo in una pazzia che a tratti è così disturbante da pregiudicare il prosieguio della lettura. Pat Bateman non si limita a uccidere le sue vittime: le tortura, le strazia, fa scempio dei loro corpi, come se dentro le loro viscere cercasse un significato a una vita che non ne ha nessuno. Assistiamo a un crescendo di maniacalità che si trasferisce dagli oggetti feticcio (i vestiti, ma anche i mobili e soprattutto gli apparecchi tecnologici) a parti anatomiche delle vittime, che vengono estratte, collezionate, trasformate in nuovo bene di lusso, esclusivo.

Il romanzo, ricchissimo di dialoghi, è narrato al presente in prima persona, dal punto di vista del protagonista che, verso la fine, sembra rivolgersi a un voi che potremmo essere noi lettori, ma anche tutto il resto del mondo dal quale lui si sente escluso. Nel capitolo “Chase, Manhattan” che è un capolavoro di azione, al culmine del delirio psicotico, la voce narrante parla per alcuni paragrafi di Bateman in terza persona, come se ci fosse infine stato uno scollamento tra due entità distinte, salvo poi riunirle quando cala la tensione massima.

American Psycho è un romanzo disturbante, eccessivo in ogni dettaglio, che sia la descrizione di uno stereo ultimo modello (e tre capitoli sono interamente dedicati alla musica degli anni Novanta – Genesis, Whitney Houston, Huey Lewis and the News) oppure il modo in cui Bateman tortura, squarta e poi uccide le sue vittime. A volte con metodi o esiti che hanno del ridicolo.

L’opera di Bret Easton Ellis è anche la rappresentazione di un odio e di un disprezzo profondi verso le donne, gli omosessuali, i poveri. Eppure il fatto che Bateman, che ha tutto, sia alla fine un perdente, il continuo black humour che è in grado di alleggerire anche i particolari più splatter, i ritratti brillanti dei vari tipi umani e delle loro miserie, ne fanno una lettura godibilissima, a tratti spassosa, lasciando così penetrare più a fondo le radici di un romanzo complesso e terribilmente affascinante.

Un naufragio. Romanzo di avventura e di coppia di Daniele Pasquini

La settimana scorsa sono stata alla presentazione di Daniele Pasquini al festival Arcella Bella, un punto d’incontro estivo nel parco Milcovich di Padova. Il libro lo avevo già letto a metà, incuriosita da una breve recensione, ed ero curiosa di ascoltare l’autore.

Uno tra gli aspetti più stimolanti di leggere letteratura contemporanea (e in gran parte italiana) è, infatti, quello di poter conoscere autori che ci piacciono e indagare il loro punto di vista sulla scrittura. Tra presentazioni, festival letterari, interviste e presenze social, lo scrittore esce da dietro il libro e può avviare un dialogo (o un monologo) con i suoi lettori.

Per alcuni, autore e opera dovrebbero essere sempre disgiunti, forse perché potrebbe mettere in imbarazzo apprezzare il lavoro letterario di una persona dai comportamenti o pensieri socialmente riprovevoli; una forma di censura che non sento di condividere. Il mio approccio però parte sempre dall’opera e ho notato che spesso gli autori che apprezzo su carta incontrano le mie simpatie anche di persona. Non sempre vale il contrario ma non me ne cruccio.

A Padova, città universitaria e dalle molte librerie, indipendenti o meno, le occasioni di ascoltare un autore sono infinite. L’unico ostacolo è il tempo (e la salvaguardia del portafogli) ma quando riesco a organizzarmi è sempre un bel momento da cui torno arricchita, come lettrice e come persona. Non sono una collezionista di dediche (tranne quelle di Sio per mia figlia) ma ne ho chiesto con piacere una a Daniele sia per il piacere di aver ascoltato il suo accento toscano, sia perché ha dato la sua risposta a una domanda su cui mi interrogo da tempo: si può – e in che modo – parlare di amore romantico in un romanzo senza risultare banali o stucchevoli?

Sulle prime sottovalutarono quell’incontro. Era stato bello potersi confidare, ma nessuno dei due gli dava peso. Forse perché le storie d’amore – quando vengono raccontate – cominciano sempre con una scintilla, con un gesto romantico, con attenzioni e piccole prove di felicità, con due persone che sono disposte fin da subito a calare sul tavolo le carte migliori, a tirar fuori tutto l’armamentario del corteggiamento. Nessuno dei due pensava che un amore potesse iniziare così, sbandando per caso, senza difese con cui coprire la ritirata. E invece un’intuizione comune rivelò loro che avrebbero potuto provare a salvarsi a vicenda, a trasformare due vite false in una vita vera.

La soluzione scelta da Daniele Pasquini è quella di unire due generi, avventura e amore, e farne un romanzo letterario in cui la domanda principale alla quale cerchiamo risposta è se i due protagonisti si salveranno.

L’incipit è molto bello e parte con un catalogo di coppie, scoppiate per i motivi che più o meno conosciamo tutti, volenti o nolenti. Già nelle prime pagine si scopre così una delle cifre stilistiche dell’autore: cogliere l’ironia anche nelle situazioni più dolorose (tratto tipico toscano, ci ha rivelato) e far esplodere momenti di intensa tenerezza.

Tutto il romanzo, infatti, è un susseguirsi armonioso di dolore e piccole gioie, fatica e risate, serietà e volgarità. Come è poi la vita, anche se in maniera più disastrata.

Un naufragio parla di una coppia, Tommaso e Valentina, appena sposati e già in crisi. Il viaggio di nozze alle Seychelles, una soluzione di comodo che in realtà non entusiasmava nessuno dei due, è giunto al termine e devono solo raggiungere l’aeroporto principale con un breve volo privato su un piccolo aeromobile. Che precipita. I due si salvano e approdano su un’isola disabitata dove si trovano in completa balia della natura e dei loro nervi. La narrazione si sposta ora su uno ora sull’altra protagonista, con spostamenti temporali dal presente dell’isola alla genesi della loro storia d’amore.

La lettura procede avvincente e, a mano a mano che l’autore li mette di fronte alle difficoltà e ai loro limiti, ha il pregio di conferire sempre più spessore ai due personaggi, fino a renderli persone, attingendo a quel bagaglio di errori e speranze che un po’ tutti condividiamo quando si parla di sentimenti.

Nonostante le infinite interruzioni (uno dei motivi per i quali le mie letture sono drasticamente calate di numero quest’anno) Pasquini ha saputo tenermi avvinta alla sua storia e mi sono trovata a sottolineare paragrafi interi, intenerita e commossa da questa continua ricerca di salvezza che mi sento di condividere.

Un naufragio di Daniele Pasquini. SEM edizioni. 2022

Fino all’inizio di Alessandro Busi

Voi dove eravate l’undici settembre 2001? È una domanda a cui quasi tutti sanno rispondere, collegando la propria storia personale all’evento che ha segnato uno spartiacque nella storia moderna, imprimendosi in modo indelebile nella memoria collettiva, e andando a influenzare pesantemente non solo lo scenario politico ma anche quello sociale e culturale. Solo a distanza di anni gli scrittori sono riusciti a trasformarlo in materia letteraria (penso a Don De Lillo con L’uomo che cade e Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, tra gli esempi più famosi) e molti pensano che anche l’attuale pandemia seguirà lo stesso iter di digestione narrativa.

Foto scattata dal terrazzo della torre sud nell’agosto 2001
(archivio personale)

In Fino all’inizio, Alessandro Busi crea un presente alternativo che parte dalla vicenda delle Torri gemelle: gli attacchi terroristici non si sono più fermati, entrando a far parte della quotidianità delle persone, colpendo soprattutto l’Europa, mai così vecchia e stanca. Gli attentatori sono cellule tumorali di un sistema senza più futuro e l’unica speranza per Luca, il protagonista del romanzo, sembra essere l’America, gli Stati Uniti, che diventano di nuovo il polo attrattore di flussi migratori dal vecchio continente. Non ci sono più le traversate dell’oceano in navi affollate ma sono gli aeroporti a essere presi d’assalto, nuovi punti sensibili e militarizzati, in cui lo stato di emergenza continua sospende ogni regola ed è un attimo vedere distrutta la propria vita, fosse anche per un solo gesto sbagliato. È così che Luca si ritrova clandestino, chiuso in una scatola nella stiva di un aereo, in un viaggio con se stesso lungo nove ore e venticinque minuti.

La costruzione di questa distopia, un’inclinazione di pochi gradi dell’asse della realtà, permette ad Alessandro Busi di costruire un romanzo avvincente, che porta all’estremo tematiche e sentimenti che tutti abbiamo provato: la paura dell’altro, il senso di precarietà della vita, la mancanza di un orizzonte futuro, la costrizione, la violenza, l’amore.

Luca riempie di storie il buio in cui viene a trovarsi, si intrecciano così i ricordi della sua vita personale e di attentati che sono successi davvero (Bataclan, Atocha, New York) a altri attentati immaginari (Roma, Barcellona, Berlino), approfittando della familiarità dei primi per riportarci al clima di quei giorni e trovare risonanze anche in questo presente, sempre incerto.

Nel buio però Luca non è solo: oltre alle sue paure, alle sue ossessioni, al respiro che è un agglomerato di bolle subacquee e scandisce i momenti topici del racconto, avverte una presenza. Nemica o amica? Luca, che ha sempre avuto un grosso problema con i legami, si trova a decidere se compiere un atto di fiducia, a dover ripensare il suo concetto di relazione.

Ci sono più elementi interessanti in questo romanzo, oltre alla trama che già di per sé si rivela molto forte e ben strutturata. Una riflessione particolare la richiede la lingua dell’autore: Fino all’inizio rappresenta l’esordio nel romanzo di Alessandro Busi, che, negli anni, si è fatto conoscere nel mondo delle riviste letterarie con la pubblicazione di numerosi racconti. In quest’opera, Busi approda alla forma del romanzo ma non dimentica la lezione della forma breve: ritmo, incisività e un linguaggio fortemente caratterizzato. Insieme ad alcuni temi ricorrenti, come la distorsione della realtà, l’ironia, l’esplorazione del linguaggio della violenza, la presenza mai stereotipata di cani, ritorna anche nel romanzo il gusto per la ripetizione, per l’eccezione, per la narrazione di uno stesso fatto da più punti di vista che si alternano e si riprendono in modo circolare, il forzare il linguaggio rendendolo fortemente espressivo, anche con l’uso dell’inglese, di onomatopee, di frasi monche. Il tutto sempre senza eccedere, con un controllo ammirevole di trama e linguaggio.

La bomba è un immenso istante, che illumina e rabbuia, sceglie cosa mettere in primo piano e cosa nascondere. Ciò che la bomba non tocca scompare dall’attenzione; ciò che la bomba distrugge diventa protagonista assoluto della storia. La bomba focalizza e istruisce gli sguardi, riassume all’ennesima potenza: la bomba è un racconto fulmineo che mina le fondamenta.

La bomba è una scrittrice migliore di tutti i romanzieri dell’universo; è l’atto estremo di lima.

Boom. E la storia inizia. E la storia finisce.

O ancora:

La sua voce è giovane, ha un ventidue per cento di entusiasmo, quindici di speranza, quarantacinque di tensione. Il restante diciotto per cento è un mescolio di dolcezza, durezza, timore, affetto, distacco, egocentrismo, rabbia, rimorso, rassegnazione, dispetto, rimpianto, protezione, sensualità.

Chissà come si è formata questa sua parlata.

Il mio modo di parlare si è formato per sopravvivere il più invisibile possibile nel mondo.

I colpi di scena sono improvvisi, destabilizzanti, eppure plausibili. Ogni scena, anche la più feroce, anche la più tenera, viene affrontata e descritta, senza lasciarne l’onere all’immaginazione del lettore, che viene centrifugato all’interno della storia.

La lettura di Fino all’inizio non è rimasta confinata sulla pagina: mentre leggevo mi sono tornati alla memoria ricordi di un passato comune, immagini che non si possono dimenticare (l’uomo che cade, il bacio tra due manifestanti durante una sommossa, l’attentato al Bataclan), ricordi sonori (la sigla di Ok, il prezzo è giusto, la canzone Empire State of Mind di Jay-Z e Alicia Keys), luoghi che conosco (Padova e New York, tra gli altri), riflessioni che hanno tormentato anche me e che a volte rivivo in questa nuova crisi mondiale. Ma la speranza, che Luca ha cercato di uccidere in ogni modo, insieme a ogni legame per potersi dichiarare solo, può rinascere in maniera inaspettata, da un incontro o da una colpa, e su di lei possiamo creare un nuovo futuro.

Fino all’inizio di Alessandro Busi è uscito per pièdimosca edizioni nella collana Ossa nel dicembre del 2021.

Qualche curiosità: Alessandro Busi ha pubblicato un racconto sulla rivista settepagine, edita dalla stessa casa editrice pièdimosca, ma se volete leggere altro di suo, trovate i riferimenti nel suo blog come un cane sulla luna.

Sempre legato all’undici settembre, in occasione del ventennale e dell’uscita del romanzo, Alessandro Busi ha dato vita a un progetto collettivo che raccoglie i ricordi di quel giorno nel blog Dov’ero mentre cadevano, a cui è possibile partecipare, ognuno con la propria storia, in 767 caratteri.

Motel Life di Willy Vlautin

È curioso come le ultime letture mi abbiano trasportato dal fascino misterioso dell’Hotel Lagoverde alle squallide stanze dei motel di Reno, in Nevada.

I maggiori punti di contatto tra i due libri sono la musica (Willy Vlautin, l’autore, è cantante e musicista), Torino (dove ho scoperto la casa editrice Jimenez) e i racconti, quelli che Frank inventa per il fratello Jerry Lee e che punteggiano Motel Life, un romanzo che rotola veloce, lasciando impresse tristezza, nostalgia, dolcezza e anche un briciolo di speranza.

Frank e Jerry Lee sono due giovani adulti, due fratelli che si sono trovati troppo presto a dover badare a se stessi. Uno è molto bravo a raccontare storie, l’altro a disegnare, ma non sono certo qualità sufficienti per cavarsela in una città come Reno, famosa per i suoi casinò, i giocatori di azzardo e i motel che sono cresciuti a centinaia e che dopo aver ospitato per anni frotte di turisti si sono declassati a residenze per poveracci, emarginati, gente che a fatica tiene insieme la propria vita.

In una desolazione di neve e alcol si apre il racconto di Frank che ricorda: ricorda la notte in cui tutto è precipitato, in cui il precario equilibrio che lui e il fratello avevano raggiunto sembra compromesso, l’ennesimo colpo di sfortuna che potrebbe prostrarli per sempre, loro nati perdenti, convinti di non poter essere altro, in una terra, l’America, che non ha pietà per chi resta indietro.

La sfortuna si abbatte sulla gente ogni giorno. È una delle poche certezze nella vita. È sempre pronta, sempre lì, in attesa. La cosa peggiore, la cosa che mi terrorizza di più, è che non sai mai chi colpirà né quando.

Jerry Lee è rimasto coinvolto in un incidente, un ragazzo è morto e i due fratelli decidono di scappare. Inizia un viaggio che li porterà lontano da Reno, per poi tornare e infine lasciarla, per sempre.

I capitoli sono brevi, rapidi, ognuno impreziosito all’inizio dallo schizzo di un’insegna, di un particolare urbano, come ci immaginiamo possano essere i disegni di Jerry Lee; la sua lingua invece impariamo a riconoscerla presto: è brusca, schietta, eccessiva.

Jerry Lee si sedette. Trovò una birra ai suoi piedi e la aprì.

«Cristo, a quello non voglio proprio pensarci, non adesso. Non tirarla fuori quella storia. E per la vita nei boschi, lì non c’è niente da fare, e la cosa peggiore è che ci sono tutti quei ragazzini che finiscono con le braccia mozzate dai macchinari agricoli. Poi li vedi che guidano solo con i piedi. E alberi che cadono sulla gente, motoseghe e roba del genere. Succedono cose orribili nei boschi, credimi. Mai sentito di famiglie ammazzate nei boschi? Orsi, roditori, serpenti e più insetti di qualsiasi altro posto al mondo, veterani del Vietnam completamente pazzi e montanari».

La narrazione è avvincente, costruita su dialoghi, ricordi, personaggi del passato e del presente che irrompono con il loro piccolo pezzo di vita, le loro debolezze e le loro disgrazie. Non c’è compatimento per nessuno nel racconto di Vlautin: la vita è così, si fanno scelte giuste o sbagliate, quasi sempre sbagliate, ma non c’è giudizio, non c’è pena.

(…) Siamo tutti incasinati, quindi tendiamo a stare con gente incasinata. E per me è giusto che sia così. Ma questo non vuol dire che siamo persone cattive, no? Se sei stato sfortunato non vuol dire che lo sarai sempre, no? Certa gente è sfortunata, ma le cose possono cambiare. Non penso che ci sia gente condannata alla sfortuna. E poi tu hai bisogno di qualcuno. Di tutti gli uomini che conosco sei quello che ha più bisogno di qualcuno. Sei la persona più solitaria che conosco. Lo dicono tutti. Persino Tommy».

E sopra la colpa, sopra la sfortuna, sopra ogni cosa resta la speranza:

Perché avere la speranza è meglio che non avere proprio niente.

E se non ce l’hai, se non sai trovartela, cerca almeno qualcuno che sappia donarti un po’ della sua.

Motel life di Willy Vlautin, Jimenez edizioni.