American Psycho di Bret Easton Ellis

Leggere capolavori di questo livello nuoce gravemente all’autostima di chi vorrebbe scrivere, soprattutto quando l’abilità narrativa e stilistica dell’autore sono al servizio di una storia e di una voce potenti.

American Psycho è un romanzo di denuncia di un mondo, quello degli yuppie anni Novanta, superficiale e dedito a un edonismo annoiato e amorale. Patrick Bateman è un ricco figlio di papà, educato nelle migliori scuole, AD di una delle imprese finanziarie di famiglia. Bello, elegante e schiavo di questa bellezza ed eleganza alle quali dedica una cura maniacale, passa le sue giornate tra lavoro (poco), palestra, ristoranti di lusso, alcol, droga e belle donne. Si muove in una New York frenetica, punteggiata di emarginati e cartelloni di spettacoli teatrali – il musical Les Miserables insiste sulle pagine come una nota battuta. Il suo è un mondo dorato di cui conosce le regole e nel quale è considerato il classico bravo ragazzo, dall’abbronzatura perfetta ed esperto di stile: a lui puoi chiedere come abbinare un paio di calzini, se il gilet è ancora di moda, come indossare un fermacravatta.

I primi capitoli ci proiettano in un eterno giorno della marmotta, dove tutti sono interscambiabili, nessuno ti ascolta davvero, conversazioni futili e uguali a se stesse si ripetono in locali sempre nuovi, dove scorrono abiti di lusso, piatti elaborati, corpoduro, cocaina e alcol. Bateman è quasi ridicolo nella sua incapacità di comunicare, nel suo essere costantemente travisato, nella continua frustrazione dei suoi desideri (prenotare un tavolo al Dorsia!), nella sua insicurezza rispetto a un aspetto esteriore che per lui è l’unico mezzo per rapportarsi agli altri, solo valore insieme ai soldi. Farebbe quasi pena se non fosse che le iniziali crisi di rabbia, la totale mancanza di empatia, il disprezzo per i barboni, lo snobismo spinto sono solo l’anticamera di una personalità folle.

Christian Bale interpreta Patrick Bateman nella trasposizione cinematografica del romanzo (2000).

“È il ragazzo della porta accanto, non è vero tesoro?

– No che non lo sono, – bisbiglio tra me. – Sono un malvagio psicopatico, io, cazzo.”

La bravura di Ellis è infatti quella di introdurre l’orrore gradualmente, di inserire elementi stridenti per poi annegarli in un mare di noia e dettagli, portandoci sempre più a fondo in una pazzia che a tratti è così disturbante da pregiudicare il prosieguio della lettura. Pat Bateman non si limita a uccidere le sue vittime: le tortura, le strazia, fa scempio dei loro corpi, come se dentro le loro viscere cercasse un significato a una vita che non ne ha nessuno. Assistiamo a un crescendo di maniacalità che si trasferisce dagli oggetti feticcio (i vestiti, ma anche i mobili e soprattutto gli apparecchi tecnologici) a parti anatomiche delle vittime, che vengono estratte, collezionate, trasformate in nuovo bene di lusso, esclusivo.

Il romanzo, ricchissimo di dialoghi, è narrato al presente in prima persona, dal punto di vista del protagonista che, verso la fine, sembra rivolgersi a un voi che potremmo essere noi lettori, ma anche tutto il resto del mondo dal quale lui si sente escluso. Nel capitolo “Chase, Manhattan” che è un capolavoro di azione, al culmine del delirio psicotico, la voce narrante parla per alcuni paragrafi di Bateman in terza persona, come se ci fosse infine stato uno scollamento tra due entità distinte, salvo poi riunirle quando cala la tensione massima.

American Psycho è un romanzo disturbante, eccessivo in ogni dettaglio, che sia la descrizione di uno stereo ultimo modello (e tre capitoli sono interamente dedicati alla musica degli anni Novanta – Genesis, Whitney Houston, Huey Lewis and the News) oppure il modo in cui Bateman tortura, squarta e poi uccide le sue vittime. A volte con metodi o esiti che hanno del ridicolo.

L’opera di Bret Easton Ellis è anche la rappresentazione di un odio e di un disprezzo profondi verso le donne, gli omosessuali, i poveri. Eppure il fatto che Bateman, che ha tutto, sia alla fine un perdente, il continuo black humour che è in grado di alleggerire anche i particolari più splatter, i ritratti brillanti dei vari tipi umani e delle loro miserie, ne fanno una lettura godibilissima, a tratti spassosa, lasciando così penetrare più a fondo le radici di un romanzo complesso e terribilmente affascinante.

Libri di libri: il modo migliore per superare il blocco del lettore.

Domani è un posto enorme. Un’amicizia con Chuck Kinder – di Nicola Manuppelli

Se qualcuno ci avesse fatto caso, la mia lista di libri letti nel 2022 è molto più breve rispetto agli anni scorsi. Ci sono stati motivi pratici ma soprattutto c’è stato un blocco della lettrice sconfortante, che per alcuni mesi mi ha fatto prendere in mano molti libri e chiuderne la lettura di nessuno. Sono cose che capitano, tocca accettarle e aspettare che passino da sole. Magari con l’aiuto di un libro magico.

Domani è un posto enorme. Un’amicizia con Chuck Kinder è uno strano tipo di libro: un po’ biografia, un po’ memoir, un po’ romanzo, è soprattutto una storia di scrittori e di libri. E leggere un libro di libri porta sempre un calore confortante, soprattutto se ti fa entrare nella cerchia di un autore leggendario (e misconosciuto, almeno qui in Italia) come Chuck Kinder.

Nicola Manuppelli è scrittore, editor, traduttore infaticabile e infinito dispensatore di aneddoti. Afferrato l’incarico di portare in Italia nuovi autori americani, propone all’editore il circolo di Stanford, la cui anima pulsante è lo scrittore e docente di scrittura creativa Chuck Kinder. Inizia così un percorso che cambierà la sua vita e la sua scrittura, proprio a partire dall’incontro con Chuck e con i suoi amici, tutti scrittori più o meno famosi.

Nicola Manuppelli e Chuck Kinder

Sia il titolo, sia il carattere dell’opera, sono un omaggio a Kinder e alla sua poetica: è lo stesso scrittore americano che sceglie Manuppelli come biografo ufficiale, non senza prima raccomandarsi di scrivere un libro che sia soprattutto di Nicola. Il materiale raccolto è tantissimo: ci sono gli scambi epistolari (migliaia di email che attraversano l’oceano), le foto, aneddoti ascoltati direttamente da Chuck e dai suoi amici o vissuti in prima persona da Nicola. Difficile organizzare tutto in maniera organica ma Manuppelli trova la chiave di lettura, ovviamente suggerita dallo stesso Kinder: la faction, neologismo nato dalla fusione tra fiction (finzione) e fact (fatto).

Vivere per scrivere è diverso da raccontare qualcosa dopo che è successa. È farla accadere.

La nostra vita è fatta di storie, basta accorgersene per poterle raccontare: già nel momento in cui viviamo possiamo scrivere un nuovo racconto e viene quindi naturale forzare un po’ gli eventi, o la loro interpretazione, o il loro ricordo, per renderli una storia interessante da essere raccontata. Con uno spirito giocoso, ironico e fortemente narrativo ci viene quindi proposto un qualcosa che non è detto che sia vero ma di sicuro è verosimile e affascinante. Un ottimo modo anche per confondere il lettore e mantenere un certo grado di riservatezza anche raccontando fatti realmente accaduti. Perché chi può dire quanto di vero ci sia in quello che leggiamo, quando è lo stesso Kinder a inventare una mitologia di se stesso, a dare più versioni degli stessi fatti, a scombinare gli eventi per lasciarci incantati e dubbiosi allo stesso tempo?

Chuck teneva il mostro* in cantina, vicino a un sacco da pugile. Era alto come una persona e per anni ci aveva fatto tanto a pugni quanto con il sacco. Perché? Perché tutto si può raccontare. Il mondo è una tale miniera di storie che spesso non sappiamo come metterci il tappo. Basta vederle. Chuck diceva che gli uomini per il settanta per cento sono composti da acqua, per il resto da storie.

(*) si riferisce al manoscritto originale di Lune di miele che Kinder aveva impiegato anni per scrivere.

Quest’opera ha un’altra caratteristica fondamentale: è intrisa di tenerezza. C’è amore per la scrittura, per i libri, per le donne, per gli amici, per l’avventura. Un romanticismo a tratti dolente ma sempre pronto a ridere di se stesso. Un’ingenuità preziosa, a tratti infantile, che non è un difetto ma una conquista di cuori puri, capaci di passare dalla commozione alla risata gradassa, dall’alcol e le risse al sostegno incondizionato: Chuck Kinder è un maestro che non cerca mai di affossare i suoi studenti ma siede loro accanto e, con pazienza, fa scoprire in loro la voce dello scrittore, una qualità che li accompagnerà per tutta la vita.

Kinder è un aggregatore, un catalizzatore, un acceleratore che mette in movimento le menti e i cuori e genera incontri e scrittura. Intorno a lui tanti nomi importanti della scena americana, a partire da quel Raymond Carver che sarà suo stretto amico, nonostante Kinder gli abbia soffiato Diane, compagna di una vita e pilastro della comunità di scrittori che si aggrega e disgrega attorno a casa Kinder, vegliata dai sacri numi dell’alcol e della scrittura.

Domani è un posto enorme è un libro per chi ama leggere, per chi crede che uno scrittore non debba per forza essere solitario ma possa trarre nutrimento da una comunità di altri scrittori, basata sulla stima e l’amicizia. È il libro perfetto per chi ama sentire raccontare storie davanti al fuoco con (numerosi) bicchieri di vino a disposizione, per chi cerca la sincerità nella scrittura (non la verità), per chi è affascinato dall’America e si esalta a leggere di Bukowski, Carver, Ford, Masters, Ward, e tanti tantissimi altri.

Un effetto collaterale però c’è: la necessità di recuperare e approfondire quella parte di letteratura americana (e non solo) che magari si è solo sfiorata o di cui si ignorava l’esistenza. Per fortuna ci pensa Nicola Manuppelli non solo a suggerirci infiniti autori ma anche a tradurli e portarli in Italia, come ha fatto con Dubus.

Una nota personale: ho avuto il piacere di partecipare a una chiacchierata con l’autore nella cornice della libreria Zabarella di Padova. La libraia Barbara Da Forno ha registrato l’evento (a tradimento) ed è disponibile a questo link: https://fb.watch/dFjzNyPfVM/ anche se vi suggerisco di recuperare soprattutto la lezione informale di Manuppelli (qui: https://fb.watch/dFjCv0u1zF/) su uno dei suoi scrittori di riferimento: Francis Scott Fitzgerald. Leggerne in quest’opera e sentirne parlare da lui mi ha spinto a riprendere in mano il Grande Gatsby. Non c’è nulla di meglio di un libro di libri per spezzare l’incantesimo e ritrovare la voglia di leggere.

Nel finale de Il grande Gatsby, Fitzgerald parla di ciò a cui Gatsby credeva di più, “la luce verde, il futuro orgasmico che anno dopo anno si allontana da noi…”, quel futuro che non importa se ci è sfuggito ma che ci costringe sempre a correre e inseguirlo e allargare le braccia per afferrarlo. È questo il tema delle opere di Chuck; il presente che vive nell’imprevedibile futuro, il passato che vive nel presente. Lui lo dice per scherzo, ma è davvero il punto della questione. Il passato come serbatoio, il domani come proiezione delle nostre storie.

Domani è un posto enorme. Un’amicizia con Chuck Kinder (2021) di Nicola Manuppelli. Casa editrice Jimenez.

Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace

È sempre difficile approcciare nel blog quello che per me rientra nei classici o tra i libri di culto. Non solo c’è questa distanza immensa tra autore e lettrice, ma questa stessa distanza è stata percorsa più volte da persone molto preparate sull’argomento; se poi si tratta di un autore come David Foster Wallace, DFW per gli intimi e gli amanti degli acronimi, sarà faticoso arrivare alla fine di questa recensione e decidere di condividerla.

C’è un però, ovviamente, che è anche alla base della mia idea di scrittura: non si scrive per stare bene, o per raccogliere applausi, ma per una necessità intima, spesso dolorosa, per il bisogno di allineare i pensieri ingarbugliati tra le righe ordinate di un paragrafo, per cercare di mettere ordine, dare un significato a qualcosa che spesso nemmeno ce li ha, ordine e significato.

Brevi interviste con uomini schifosi non è stato il mio primo incontro con DFW. Prima è venuto Una cosa divertente che non farò mai più, il resoconto dettagliato e allucinato di una crociera di lusso nei Caraibi, che all’epoca mi aveva divertito e inquietato, per motivi che ho messo meglio a fuoco con questa seconda lettura, successiva di qualche anno.

Brevi interviste con uomini schifosi mi ha sconvolto. Per essere più precisa, l’espressione che ho usato con un amico, subito dopo aver finito di leggere Ottetto, uno dei racconti contenuti nella raccolta, è stata “ho la sensazione che qualcuno mi abbia preso a schiaffoni il cervello“.

Non è certo il contenuto di questi racconti, a tratti spinto e osceno, non sono i personaggi, spesso uomini e donne che accolgono in sé sentimenti orribili e censurabili, o lo stile geniale, ripetitivo, ossessivo, saturo di dettagli, iperrealistico. Quello che mi ha colpito come una sberla è il dolore fortissimo dell’autore, l’intelligenza che si tende al massimo nel tentativo – vano – di spiegarlo, comunicarlo, nelle sue importantissime sfumature e declinazioni.

La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e l’impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di fondo.

(La persona depressa)

D.

– A quanto pare devo continuamente ammettere che ho il terrore di non farmi capire da te. Che non riuscirò a spiegarmi abbastanza bene, o che tu in qualche modo senza volerlo interpreterai male quello che dico e lo stravolgerai e ne soffrirai. Questo mi mette un terrore incredibile, te lo devo dire.

(B.I. n. 2, ottobre ’94 CAPITOLA, CALIFORNIA)

C’è molta disperazione in queste pagine, allegramente nascosta dietro una formidabile ironia, un gioco letterario condotto con mano ferma, lucidità e desiderio di sperimentazione. Autocompiacimento, anche, ma soprattutto la capacità di percepire se stesso e il mondo, da dentro e da fuori, in maniera oggettiva eppure sentendo tutto in maniera fortissima.

Ci sono dei racconti meravigliosi, che meriterebbero solo per se stessi. Per sempre lassù, a esempio, è il racconto per cui ho deciso di leggere tutta la raccolta. L’ho scoperto a un corso di scrittura e l’ho trovato di un’umanità e una delicatezza devastanti, in cui le acrobazie letterarie si fanno da parte per lasciare spazio alla descrizione di un momento, il momento in cui un ragazzo percepisce il limite tra infanzia e vita adulta e noi lo accompagniamo fin lì, sul punto di saltare da un trampolino, di cambiare tutto.

Sali sulla lingua del trampolino. La tavola si rivela lunga. Lunga come il tempo che resti lì in piedi. Il tempo rallenta. Si infittisce intorno a te man mano che il tuo cuore aumenta i battiti a ogni secondo, a ogni movimento nel sistema della piscina sottostante.

La tavola è lunga. Da dove ti trovi sembra allungarsi nel nulla. Sta per spedirti da qualche parte che la sua lunghezza ti impedisce di vedere, a cui sembra sbagliato sottomettersi senza nemmeno pensare.

Vista in un altro modo, quella stessa tavola non è che una cosa lunga piatta e sottile coperta da un ruvido materiale di plastica bianca. La superficie bianca è molto ruvida, picchiettata e rivestita di un rosso pallido annacquato che però è pur sempre rosso e non ancora rosa – gocce di vecchia acqua della piscina che catturano la luce del tardo sole sopra le montagne aguzze. Il ruvido materiale bianco della tavola è bagnato. E freddo. I tuoi piedi sono indolenziti dai pioli sottili e sono dotati di grande sensibilità. Sentono il tuo peso. All’inizio della tavola ci sono i poggiamano. Non sono come quelli appena lasciati della scala. Sono spessi e bassissimi, ti devi quasi chinare per reggerti. Stanno lí solo per bella mostra, nessuno li usa. Reggersi richiede tempo e altera il ritmo della macchina.

È una lunga fredda ruvida tavola di plastica o fibra di vetro bianca, venata del triste quasi rosa delle caramelle scadenti.

Ma in fondo alla tavola bianca, sul pizzo, dove ricadrai col tuo peso per farti espellere, ci sono due zone di oscurità. Due ombre piatte in piena luce. Due vaghi ovali neri. Il fondo della tavola ha due chiazze sporche.

Le hanno fatte tutti quelli passati prima di te. Mentre te ne stai lí coi piedi teneri e ammaccati, indolenziti dalla ruvida superficie bagnata, capisci che sono due macchie scure fatte dalla pelle degli altri. Sono pelle, abrasa dai piedi dalla violenza della sparizione di persone con un peso reale. Tante di quelle persone che non riusciresti a tenere il conto. Il peso e l’abrasione della loro scomparsa si lascia dietro pezzettini di soffici teneri piedi, pezzetti e scaglie e riccioli di pelle che si sporcano e si scuriscono e si abbronzano restando minuscoli e imbrattati al sole in fondo alla tavola. Si ammucchiano e si imbrattano e si mescolano scurendosi in due cerchi.

Altri racconti di questa raccolta che mi sono piaciuti molto o che mi sono rimasti impressi sono La morte non è la fine, per il procedere con ossessive precisazioni, come uno spirografo che continua a girare su se stesso fino a realizzare un disegno armonioso; alcune delle Brevi interviste con uomini schifosi, in cui non conosciamo le domande, ma veniamo incalzati dalle risposte di uomini per lo più egoisti, intimamente convinti del loro modo di essere, per quanto non possano negare che i loro pensieri e le loro azioni, detti ad alta voce, siano quantomeno molto discutibili; La persona depressa, in cui una donna è talmente presa dal suo dolore da non saperne provare per gli altri, nemmeno per la sua analista suicida, e per tutta la durata del racconto si angustia all’idea di sembrare terribilmente tediosa e patetica alle poche persone con cui si confida, senza tenere in alcun conto le loro emozioni e i loro bisogni, se non in funzione di se stessa, in un crescendo orribile di egoismo:

(…) sembrava essere che tutto il suo dolore e la sua disperazione angosciosi dopo il suicidio della terapeuta di fatto erano stati solo ed esclusivamente per se stessa, cioè per la propria perdita, il proprio abbandono, il proprio dolore, il proprio trauma e dolore e sopravvivenza affettiva primordiale.

Un altro racconto che mi ha colpito, tanto da rileggerlo almeno tre volte, è Pensa: arrivata alla fine mi è sembrato di non aver capito nulla di quello che voleva dire DFW e anche se credo di essermi avvicinata al senso, resta ancora la sensazione di qualcosa che non riesco ad afferrare pienamente e continua a sbattere nella stanza, troppo in alto.

Lei ha il reggiseno che si apre a scatto sul davanti. A lui si schiarisce la fronte di scatto. Lui pensa di inginocchiarsi. Ma sa cosa penserebbe lei se si inginocchiasse. Ad avergli schiarito la fronte dalle rughe è stata una specie di rivelazione. I seni si sono liberati. Lui immagina la moglie e il figlio. Ora i seni non hanno confini.

(Pensa)

La scrittura è ipnotica, ha un andamento a onde che ritornano, simili e diverse, a bagnare la riva, portando ora una conchiglia, ora un pesce morto, mentre la marea e la tensione del racconto salgono, inesorabilmente, in maniera impercettibile. Eppure lo avvertiamo.

Mondo adulto e Ottetto mi hanno stupito per il modo in cui David Foster Wallace lascia intravvedere il suo modo di costruire una storia, l’apparente facilità che sottende invece a rigidi calcoli, a riflessioni portate all’estremo, a obiettivi ambiziosi e numerosi fallimenti. Come se potessimo sbirciare gli ingranaggi di un orologio complicato.

Sul letto di morte, stringendoti la mano, il padre del nuovo giovane commediografo Off-Broadway di successo, implora una cortesia tratta il tema di un padre che ha sempre detestato il figlio, fin dalla nascita, e si confessa sul letto di morte, trasformando un sentimento accettabile (il fatto che l’amore paterno non sia immediato e scontato) in un qualcosa di disturbante, dato l’odio e l’ossessione che l’hanno divorato negli anni.

È difficile a volte leggere questi racconti, perché l’autore scrive in maniera intricata, si diverte ad accumulare note, a volte lunghissime, gli piace spezzare il ritmo, farci perdere il segno, il senso. Poi, di colpo, cambia registro, si fa delicato, intimo, ti frantuma il cuore con una dolcezza struggente, per poi accostare immagini volgari, dettagliate, rutti in pieno volto. Quanto è sincero in questa operazione, quanta tecnica c’è dietro? Viene il dubbio, e non possiamo scioglierlo, e forse non lo vogliamo, perché è più rassicurante pensare che siano giochi letterari, abilità di una mente geniale, piuttosto che accettare che oltre al sorriso sardonico e irriverente ci sia una disperazione che scorre vischiosa sotto pelle e riempie ogni arteria, vena, capillare.

Se c’è stata fatica in questa lettura, o dolore, è stata ampiamente ricompensata da pagine di profonda bellezza, da risate sincere e da riflessioni importanti, tra le quali la gratitudine per aver trovato descritti sentimenti e pensieri schifosi, quelli in cui, a volte, tutti siamo inciampati e che qui riconosciamo, con sollievo, di non aver portato alle estreme conseguenze. O forse no.

Brevi interviste con uomini schifosi (1999) di David Foster Wallace (1962-2008). Einaudi.

Madame Bovary. Riflessioni sparse di una tizia che legge e che scrive.

Vittorio Matteo Corcos 1

Leggere un classico, magari rileggerlo dopo vent’anni, e accorgersi di quanto si era perso in quella prima acerba lettura. Ogni volta. Perché se un libro è considerato un capolavoro, forse è perché non smette mai di parlarci e, a seconda del periodo che stiamo vivendo, cogliamo nuovi significati, nuovi spunti di riflessione.

Sono settimane di letture disordinate. Compro più libri di quelli che riesco a leggere, sto frequentando un corso sulla scrittura (dal quale è partito l’invito a rileggere Flaubert) e ho addirittura scritto un brevissimo racconto. Dopo anni.

Leggere e scrivere sono due aspetti basilari delle mie giornate, ma quando diventano un fatto privato portano con sé un tale grado di emozione che a volte me ne sento soverchiare. A volte l’intensità è tale da essere quasi sofferenza.

Madame Bovary l’ho letto in una quindicina di giorni. Lo scopo era concentrarsi sullo stile, capire e carpire la scrittura di Flaubert. In realtà dopo le prime venti pagine mi sono lasciata travolgere dalla storia, un po’ come Emma con le sue letture romantiche adolescenziali. Da ragazza l’ho trovata un personaggio odioso: sciocca, vanitosa, ingorda di ciò che non poteva avere. Ora invece comprendo di più il suo fascino, il suo tormento, il suo anelito continuo a una vita piena di sentimenti potenti, il disprezzo per la vita scialba di provincia.

Emma è sola. Sola con i suoi demoni. Non ha un’amica, un amante sincero a cui confidare i sentimenti che la agitano. E, lasciata sola, in balia di una mente e di un cuore facili ad infiammarsi, perde il contatto con la realtà, crea un suo mondo di sogno, fatto di fantasmi di amori e ricchezze.

Vittorio Matteo Corcos 3

Emma è un personaggio tragico, complesso e immortale. Perché il disagio che lei prova è comune alle anime sensibili e non può lasciarle indifferenti. Quando Flaubert afferma, al processo contro l’amoralità della sua opera “Emma sono io!”, per me è sincero. Perché anche sue sono le sofferenze di un borghese che rifiuta la sua condizione. I contrasti dell’anima tra la vita che si vorrebbe vivere e l’impossibilità di farlo. Perché nell’uomo ci sono tensioni di assolutezza che possono essere risolte solo in brevi spazi di tempo, che si annacquano nel fango della vita quotidiana, con i suoi ritmi, le sue bassezze, le piccole e grandi meschinità.

Madame Bovary non è però solo passione, anzi. E’ un’analisi dettagliata della piccolezza borghese. L’autopsia di una società marcia. Con sguardo scientifico e non scevro di ironia, Flaubert ci espone la realtà dei fatti, documenta minuziosamente la vita dei suoi contemporanei. E nella bêtise di quegli uomini e donne ritrovo prepotentemente la stupidità della nostra società. Anche quella purtroppo immortale.

Al corso abbiamo discusso a lungo di contenuti e forma. Ed è un piacere pieno poter conversare a piacimento con persone profonde, che condividono la stessa passione. Approfondire, indagare, apprendere, in un colloquio alla pari dove ogni opinione ha pari dignità. Mi rendo conto che mi manca sempre più questo dialogo diretto, il confronto delle idee, e ne cerco succedanei in rete, nei gruppi di lettura, nei blog letterari, nella frequentazione – purtroppo solo virtuale – di altre persone appassionate di lettura e scrittura. Ho fame di bellezza e di intelligenza. Ma temo che non riuscirò mai a sentirmi sazia.