Beati gli inquieti di Stefano Redaelli – un affaccio sul mondo dei folli

Stefano Redaelli è un uomo gentile, dallo sguardo buono e appena sfuggente. Parla in modo pacato e preciso, sorride spesso, e potrebbe addirittura sembrare innocuo. È quello che racconta che è rivoluzionario, addirittura incendiario, e si capisce perché la Neo. edizioni abbia scelto di pubblicare Beati gli inquieti, un libro in cui “Poesia, follia e spiritualità convivono nel romanzo come tre sorelle”.

Antonio, il protagonista, si propone come ricercatore universitario e il libro come il racconto di una ricerca sulla follia che trova la sua naturale continuazione in un ricovero fittizio alla Casa delle farfalle, una struttura psichiatrica in cui avrà modo di osservare e conoscere da vicino i folli.

La narrazione prosegue presentandoci alcuni degli ospiti della struttura: Carlo e Simone, i suoi compagni di stanza, Angelo, il solitario ossessionato dal deserto e dalla FBI, Cecilia e le sue poesie, Marta e i suoi fiori immaginari. Ci sono poi Alessandra, l’infermiera, e la dottoressa, la direttrice che accorda l’ingresso ad Antonio e con il quale instaura un rapporto di forte antagonismo.

Potrebbe essere un romanzo lineare se fosse tutto qui invece, durante la lettura, si susseguono continui cambi di registro, leggere deviazioni dalla traiettoria, alternanze di punti di vista, in una struttura che lascia spiazzati e insinua il dubbio sull’attendibilità del narratore. Per una lettrice come me, che ha bisogno di conoscere la direzione, prevederla e ogni tanto essere colta alla sprovvista, leggere questo romanzo ha significato abbandonarsi alle parole, lasciarsi cullare da un leggero moto ondoso che può portare alla deriva o arenare su una spiaggia deserta. Bisogna quindi lasciarsi prendere per mano, fidarsi e affidarsi allo scrittore, che sa benissimo quello che fa e conosce le regole del gioco narrativo che ha creato. C’è invenzione, c’è una profonda bellezza, ma soprattutto una profondità vertiginosa da cui scaturiscono dubbi e intuizioni.

Stefano Redaelli, un dottorato in fisica e uno in letteratura, uno studio su religiosità e follia che lo accompagna da moltissimi anni, è riuscito in questo romanzo a dare forma e voce a una realtà che è di per se stessa frammentata e difficilmente narrabile, anche dai suoi stessi attori. Ci sono in questo testo un profondo amore e rispetto per i folli, gli inquieti, che saranno beati. E qual è poi questa distanza tra i sani e i folli? A volte è solo un bivio sbagliato, un accadimento esterno, che ci possono portare a una Casa delle farfalle, una fatica di adattarsi a una società che cannibalizza i suoi elementi e tende a escludere chi troppo sente, chi troppo capisce.

Redaelli ci chiede di ascoltare.

E ascoltare, senza per forza capire o comprendere completamente, non è facile. Ma è necessario ed è un impegno al quale il corpo sociale ha derogato troppo spesso. Prima c’erano i manicomi, ora cosa resta? Chi segue la sofferenza psichiatrica e come? Non posso non pensare a persone che ho conosciuto, a reparti che ho intravisto, ai pozzi di dolore che si spalancano impossibili e alla bellezza infinita di un pensiero, di un gesto. Cosa possiamo fare di fronte a questo? La risposta che sembra suggerirci Redaelli è che i matti si salvano da soli, insieme, perché solo tra loro si possono riconoscere e comprendere. Noi non possiamo che restare ad ascoltare, sperando di trovare cuori aperti quando capiterà a noi di perderci, di incagliarci nella definizione della nostra identità. DI-IO.

Penso al terreno da preparare quando si scrive; piuttosto un lavoro che si subisce: è la vita a dissodarci, ad affondare colpi, a livellarci a terra. Sembra un deserto da cui non nascerà mai niente.

“Quando il terreno è pronto, puoi seminare. La semina è bella, Antò, la facevamo insieme alle donne, spargevamo i semi lungo il campo per fasce di un metro, un metro e mezzo. Prima in una direzione, poi nell’altra”.

Mi fa vedere come si fa con un gesto ampio del braccio. Sembra il movimento di una danza.

“Poi devi passare il rastrello in superficie per interrare i semi e il rullo per farli aderire. Se no, non cresce niente. Poi devi bagnare il terreno con il tubo, Antò, tutti i giorni lo devi bagnare, senza esagerare. Poi quando vedi la prima erba è una sensazione bellissima. La devi far crescere due o tre centimetri, tutti i giorni la devi bagnare. Quando arriva a sei, otto centimetri, fai il primo taglio. Allora il prato è pronto”.

La stessa cura richiede la scrittura.

Le parole devono attecchire; una storia va nutrita, tutti i giorni, bisogna chinarsi, sudarci sopra.

Beati gli inquieti (2021) di Stefano Redaelli. Neo. edizioni febbraio 2021.

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