Conversazioni sul rapporto tra musica e scrittura

Passata l’euforia sanremese, in attesa della follia dell’Eurovision, c’è sempre spazio per ampliare il proprio sguardo sul panorama musicale, magari accompagnati dalle voci di ottimi scrittori.

Ognuno di noi ha la sua personale cultura musicale, legata ai propri gusti, certo, ma anche alle influenze ricevute negli anni: la famiglia, gli amici, gli amori; e poi le canzoni che hanno fatto da colonna sonora a eventi importanti della nostra vita, singolari o collettivi, o quelle che ci restano appiccicate addosso come un chewingum alla scarpa e non ce ne sappiamo più liberare.

C’è una memoria sonora in ognuno di noi, capace di entrare in connessione con una parte intima e sincera, magari contraddittoria e sfaccettata, e ci sono canzoni in grado di toccare punti della nostra anima e svegliarli dalla parestesia in cui erano precipitati, anche solo per i tre-quattro minuti di una traccia nelle cuffiette.

In questi giorni esce per Arcana editore Ti racconto una canzone, a cura di Massimiliano Nuzzolo, in collaborazione con Eleonora Serino. Si tratta di una raccolta di racconti scritti da una quarantina di autori diversi, tutti accomunati dal legame con una canzone specifica.

Scorrendo la lista degli autori (come faccio per ogni rivista letteraria o raccolta che mi capita tra le mani) ho riconosciuto tre scrittori – tre amici – con i quali mi sarebbe piaciuto approfondire su più fronti il rapporto tra scrittura e musica. È nata così l’idea di un’intervista qui sul blog (la prima!) a partire dall’analisi del loro racconto per poi dare vita a un confronto molto interessante, ricco di nuove suggestioni di lettura e di ascolto, e di nuovi spunti di riflessione sull’atto della scrittura.

In ordine del tutto casuale (che sia alfabetico è solo un caso, appunto), iniziamo da Gianluigi Bodi.

Per chi come me bazzica tra riviste letterarie e piccola-media editoria, Gianluigi Bodi è un’istituzione: credo abbia pubblicato con quasi tutte le riviste presenti e future, ha un blog molto apprezzato in cui da tempo immemore recensisce centinaia di romanzi all’anno (senzaudio), collabora con il Premio Comisso per individuare e intervistare i nuovi autori veneti ed è di una modestia imbarazzante ma profondamente sincera. Per Arcana ha scritto il racconto Child is my name, legato alla canzone omonima dei Kemopetrol, primo singolo del gruppo finlandese, uscita nel 1999.

(MF) In che momento hai deciso che avresti trasformato in racconto proprio questa canzone?

(GB) Child is my name ha avuto una genesi che parte da lontano. Ho scritto una prima versione di questo racconto nel 2000 con tutti i difetti che può avere un racconto scritto più di vent’anni fa. La prima versione era abbastanza ingenua a essere buoni. Quando Massimiliano Nuzzolo mi ha chiesto di contribuire alla raccolta ho scritto di getto un racconto basato su un’altra canzone, un’altra ossessione, ma era troppo lungo e non volevo tagliarlo perché mi sembrava di snaturarlo. Mi è tornato in mente Child is my name e ho deciso di riscriverlo senza rileggere la versione precedente e devo dire che sono molto felice del risultato.

(MF) Ogni autore ha i suoi scrittori di riferimento, ma qual è la musica che senti più vicina al tuo modo di scrivere? C’è un autore o un gruppo musicale che senti affine e se sì, coincide con la musica che ascolti più volentieri o sono due mondi musicali distinti?

(GB) Ho sempre ascoltato tanta musica fin da quando ero bambino, ma ovviamente i gusti sono cambiati con il passare degli anni. Non so dirti se ci sia un autore o un gruppo musicale che sento affine, ma di sicuro c’è un parallelismo tra un certo tipo di musica che ascolto, le sensazioni che questa musica provoca in me e la voglia di provocare le stesse sensazioni in chi legge le cose che scrivo. Si tratta di musica che oserei definire delicata nelle atmosfere, sussurrata più che gridata. Mi riferisco ai Koop, ai Thievery Corporation, agli Zero7 e al progetto Tosca. C’è qualcosa in questo genere di musica elettronica che riesce a smuovere la malinconia che è in me.

(MF) Quando scrivi ascolti musica? E trovi che influenzi più il tuo stato d’animo o il ritmo della pagina?

(GB) Dipende. Non ho una routine definita. Mi capita di ascoltare musica, ma di solito si tratta di pezzi che in qualche modo devono servire da sottofondo e isolarmi dal mondo esterno. Se mi metto a canticchiare la canzone che sto ascoltando allora significa che ho scelto male il tappeto sonoro. Però devo dire che il più delle volte scrivo senza sottofondo e credo che sia una cosa che ha a che fare con l’età e una certa difficoltà a tenere la concentrazione se distratto da stimoli esterni.

(MF) Il tuo racconto inizia al mare, ai bordi di una spiaggia assolata, ma è pervaso da un’intensa sensazione di struggimento, dal presentimento di una disperazione senza uscita che poi, nel corso della narrazione, trova il suo scioglimento. La canzone dei Kemopetrol ha tinte blu, sonorità elettroniche che portano alla notte, al freddo, eppure c’è lo stesso dolore sussurrato. Leggendo poi il loro testo le analogie diventano più evidenti: è bello il gioco di cercare le immagini che hai trattenuto e che si sono incardinate nel racconto. Spesso, quando leggo i testi delle canzoni, mi resta un senso di incompiutezza, di un accenno a qualcosa che non posso capire completamente. E lì resta spazio per la nostra immaginazione e i nostri sentimenti. È anche per te così?

(GB) Ogni canzone, o meglio, ogni buona canzone è, secondo me, prima di tutto un dialogo tra chi l’ha scritta e chi la ascolta e come in tutti i dialoghi che si rispettino è facile che qualche pezzo venga a mancare o che il messaggio venga mal interpretato. A me è sempre piaciuto quell’aspetto della musica che fa sì che la ricezione sia sempre personale, che ognuno di noi ami una canzone per i motivi più disparati. Se ci pensi anche quando leggi un racconto o un romanzo o una poesia c’è una parte di te che dice: non so se ho colto tutti i riferimenti ma quello che ho capito mi piace. E poi magari ti metti a parlare con qualcuno che ha letto lo stesso libro e quando ne parlate vi sembra di aver letto libri diversi. Quando una canzone mi resta dentro di solito significa che c’è qualcosa che mi ha colpito, qualcosa che può essere un’immagine, un determinato gioco sonoro, una strofa o magari l’energia o l’atmosfera che crea.

(MF) Mentre pensavo a questa intervista, mi chiedevo quanti e quali sono i romanzi recenti che hanno la musica come elemento portante della scrittura. Il primo che mi viene in mente è Madrigale senza suono di Andrea Tarabbia, vincitore del Campiello nel 2019, oltre al classico Alta fedeltà di Nick Hornby. Tu che leggi molto più di me hai in mente altri esempi?

(GB) Di norma non riesco mai a ricordare dei libri in base al tema che trattano. Hai presente quando qualcuno ti chiede di nominargli un libro che parla di insetti e tu al massimo riesci a tirare fuori dal cervello solo la Metamorfosi? Con la musica è la stessa cosa. Al di là dei due che citi tu e che ho letto anche io con molta soddisfazione, mi vengono in mente Beautiful Music di Michael Zadoorian uscito per Marcos Y Marcos che racconta la storia dell’educazione musicale di un bambino a cui muore il padre e Parli del diavolo di Michael Poore edito da E/O, un libro che dà un’immagine di Satana molto interessante. Ne avrò letti di sicuro altri e ce ne saranno molti altri lì fuori, ma al momento questi sono quelli che mi sono venuti in mente.

(MF) Mi regali una canzone di nicchia e una canzone ultra pop alle quali sei legato e che vorresti condividere con chi sta leggendo?

(GB) Per quel che riguarda la canzone ultra pop, pur non essendo sicuro che si possa definire tale, devo dire che sono molto legato a When I’m small dei Phantogram. Ormai la frase “Ho consumato il disco” non si può quasi più dire, ha perso gran parte del suo significato, ma se il gruppo ha guadagnato dagli streaming è anche merito mio. Non stiamo parlando di un capolavoro della musica mondiale, ma si tratta di una canzone che è arrivata al momento giusto e che mi rievoca ricordi molto belli, quelli di quando è nato mio figlio. Per trovare invece una canzone di nicchia bisognerebbe controllare il numero di streaming di ogni canzone che ascoltiamo perché quello che è di nicchia per noi potrebbe essere un successo esplosivo per una fetta di mercato ben definita. Ascolto sempre molto volentieri Bright Nights dei Koop. Si tratta di un pezzo elettronico, uno di quelli che mi trasmettono sensazioni profonde. Al momento ha poco più di 900 mila ascolti su Spotify, ma considerando che la metà saranno miei penso di poterla definire canzone di nicchia.

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Il secondo autore con il quale ho avuto piacere di discorrere – tanto – di musica è Edoardo Ghiglieno.

Edoardo Ghiglieno è uno scrittore ma soprattutto è un frequentatore assiduo di concerti, con un monte ore di ascolti musicali di gran lunga superiore alla media nazionale. Il suo racconto si intitola Perfect Blue Buildings e si ispira alla canzone omonima dei Counting Crows del 1993.

(MF) Come scrittore so che sei più abituato a confrontarti con la forma lunga del romanzo, eppure in questo racconto sei riuscito a condensare la storia di un uomo, schiacciato dalla vita e da incontri che lo hanno solo accompagnato nel suo destino, senza permettergli una deviazione salvifica. Il fatto di aver dovuto scegliere una sola canzone e concentrarsi su questa ti ha in qualche modo aiutato? E come?

(EG) È stata un’esperienza davvero piacevole, anche perché mi è stato chiesto di fare qualcosa che ho spesso desiderato: trasformare le sensazioni e le immagini che scaturiscono dall’ascolto di una canzone in qualcosa da raccontare. L’immaginario legato a questo brano poi, mi accompagna da molti anni ormai e nel tempo ha assunto le forme più diverse. Questa è l’ultima e prende le mosse da una frase che ricorre ogni volta prima del ritornello: “Help me stay awake, I’m falling…”. È storia di un uomo che è caduto troppe volte e si rende conto che non c’è più niente e nessuno che possa aiutarlo a restare in piedi.

(MF) Ho letto il tuo racconto ascoltando la canzone dei Counting Crows è la combinazione è stata letale: ho sentito distintamente sfilacciarsi a ogni paragrafo quel muscolo che chiamano cuore. C’è un certo tipo di musica che ci permette di avvicinarci di più al nucleo della nostra tristezza, di immergerci dentro e uscirne in qualche modo purificati, con un effetto catartico, e così succede a volte anche con la scrittura. Tu, oltre che scrittore, sei anche musicista: trovi che sussista questa analogia tra musica e scrittura? Hanno per te la stessa risonanza?

(EG) Trovo che questa analogia sia molto forte. Spesso, quando parlo di un autore di libri che ho amato e provo a trasmettere quello che provo, ricorro a questa immagine. Penso che la voce di uno scrittore, la sua capacità di raccontare una storia e i propri personaggi, possano produrre lo stesso fenomeno che scaturisce dalle onde sonore di una canzone che ci emoziona e ci commuove. È fisica: qualcosa che entra in assonanza con il nostro essere e produce una risonanza emotiva proprio come le canzoni e le melodie che amiamo di più.

(MF) Nel tuo racconto c’è una struttura con uno schema ricorrente, manca un ritornello ma per il resto ricorda molto la costruzione di un testo musicale. È una scelta voluta in partenza o il ritmo della musica ti ha portato a concepire il racconto in questo modo e poi hai solo assecondato questa direzione?

(EG) Ogni volta che scrivo qualcosa, un racconto o un capitolo di un romanzo, parto sempre da un’immagine, una visione, spesso improvvisa, che mi appare quando penso alla storia che voglio raccontare. Questo racconto è nato così e, una volta delineata la trama, sono arrivate le altre immagini. Non è stata una stesura lineare, ho scritto di quelle visioni e poi le ho montate legandole alla linea narrativa principale. Quindi sì, direi che hai proprio colto nel segno, sembra la genesi di una canzone.

(MF) Spesso i musicisti sono anche scrittori, abbiamo parlato molto insieme di Motel life di Willy Vlautin, hai in mente altri autori o romanzi intimamente legati alla musica?

(EG) Il primo autore che mi viene in mente è Nick Hornby e il suo romanzo Alta Fedeltà che ho adorato. Poi penso a Nickolas Butler e la sua Shotgun Lovesong, altro libro per me epocale, in cui il personaggio di Lee è ispirato dal cantante Justin Vernon (frontman dei Bon Iver) di cui lo scrittore è amico. C’è parecchia musica anche ne Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, romanzo strepitoso a cui è stato meritatamente assegnato il Pulitzer nel 2011. Chiudo con Cristò e il suo Restiamo Così Quando Ve Ne Andate, un romanzo bellissimo e struggente dove la musica è uno dei protagonisti principali.

(MF) Mi regali una canzone di nicchia e una canzone ultra pop alle quali sei legato e che vorresti condividere con chi sta leggendo?

(EG) La canzone ultrapop che scelgo è A Change Of Heart dei The 1975. L’ho scoperta per caso poco più di un anno fa e non sapevo niente di questo gruppo che ho appreso invece essere famosissimo in Italia e nel mondo. Perché mi piaccia così tanto non l’ho mai capito, ma penso che abbia a che fare con il discorso qui sopra sulla “fisica delle emozioni”. Pescare nelle mie nicchie è sempre interessante, ma non è per nulla facile fare delle scelte. Dico Red Sky Radio (Baby Baby Baby) dell’ultimo album degli Elbow. Questo brano è la summa di quello che amo di loro in termini di melodia, armonizzazione ed esecuzione. Loro sono dei musicisti meravigliosi e anche il testo, nella fattispecie, è molto bello ed evocativo.

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Il terzo e ultimo autore con cui ho avuto il piacere di confrontarmi è Carmelo Vetrano.

Carmelo Vetrano è un autore raffinato, dai gusti letterari e musicali mai banali. Suoi racconti sono comparsi su numerose riviste ed è prossimo all’esordio nella narrativa insieme a Laurana Editore. Per Arcana ha scritto il racconto Hawa, legato a Ode to sad disco di Mark Lanegan (2012).

(MF) Un aspetto interessante che è emerso anche solo dall’analisi di questi tre racconti, il tuo e quelli di Gianluigi Bodi e Edoardo Ghiglieno, è il modo personale e diverso con il quale avete interpretato la traccia suggerita dal curatore, Massimiliano Nuzzolo: ti racconto una canzone. Il tuo racconto in particolare mi ha stupito perché all’inizio hai trattato la canzone come un elemento narrativo concreto, quasi fisico: il verso A mountain of nails burn in your hands è ricopiato sullo zaino di uno dei personaggi, poi questa frase diventa sempre più importante, fino a esplodere nel finale. Ti chiedo, ti è venuto spontaneo trattare il tema così o prima avevi valutato altre interpretazioni?

(CV) Fin da subito ho pensato che non volevo parlare di una canzone, ma provare a farla sentire inserendola nel tessuto del racconto. Quando ho immaginato il personaggio di Hawa sapevo che quella canzone faceva parte della sua vita, ma non sapevo ancora in che modo sarebbe entrata nel testo; scrivendo si è chiarito tutto. Non ho valutato altre interpretazioni perché, una volta che ho iniziato a scrivere, canzone, personaggio e tema erano elementi ormai indissolubili tra di loro.

(MF) Ascoltando Ode to sad disco e leggendo il tuo racconto c’è un’apparente frizione tra l’ambientazione dimessa e il suono ricco, stratificato e distorto che accompagna la voce graffiante di Lanegan, eppure ho ritrovato l’esatta sensazione di epicità di quando mi trovo a camminare per la periferia urbana con la musica elettronica sparata nelle cuffiette: mi sono chiesta se sia mai capitato anche a Thomas (anche se confido più in Hewa) e tutto ha avuto più senso, i pezzi si sono incastrati in un puzzle diventato tridimensionale. Pensando all’atto della scrittura, la musica può diventare un’ulteriore occasione di osservazione della realtà? E aggiungendo una colonna sonora ai nostri personaggi ne aumentiamo la credibilità o è un procedimento rischioso?

(CV) Trovo normale che la musica entri in una narrazione perché fa parte della vita. Può essere usata come semplice dettaglio realistico, per dare profondità al contesto e alla storia o per essere la protagonista assoluta. Dovrebbe in ogni caso avere una coerenza con quello che si vuole raccontare, o con il vissuto del personaggio, e non essere usata solo come elemento decorativo. La canzone del mio racconto, più che come una colonna sonora, la vedo come un elemento distintivo del personaggio, come potrebbe esserlo un oggetto o un aspetto caratteriale. È un elemento che a un certo punto, però, supera questa condizione di partenza per diventare un ponte emozionale tra mamma e figlio, un ponte che li unisce e nello stesso tempo li condanna a un destino comune. Alla prima domanda ti rispondo invece dicendo che hai ragione a parlare di un’apparente frizione tra ambientazione e suono, ma per me quella frizione è già dentro la canzone: al suono ricco e pieno di cui parli, si accosta una voce graffiata, scavata, che riflette l’oscillare tra vuoto e pieno dello stato d’animo dei due personaggi.

(MF) Nel tuo racconto ci sono molti dettagli accennati e non spiegati, che contribuiscono a dare profondità alla narrazione senza rallentare la storia. È un aspetto che si ritrova spesso nei testi musicali e che unito alle suggestioni della musica contribuisce a creare un’interpretazione personale dell’ascolto. Per te quanto è importante il testo di una canzone? E ha senso valutarlo disgiunto dalla parte musicale?

(CV) Per me musica e testo di una canzone sono un blocco unico, si influenzano a vicenda caricandosi di intensità e significati che da soli non potrebbero avere. Mi interessa poco fare la radiografia di una canzone, sapere come nasce, o smontarla; mi interessa invece quello che l’artista ha deciso di far uscire dalla sua testa/laboratorio per farcelo ascoltare (tra l’altro, potrebbe anche decidere di far nascere un blocco di sola musica o di sole parole). Comunque, a volte ho provato a separare il testo dalla parte musicale, e spesso mi ha deluso: è come voler separare le stelle dalla notte.

(MF) C’è un’analogia che puoi riconoscere tra la musica che ascolti e il tuo stile di scrittura? Ci sono artisti che più di altri influenzano il tuo modo di narrare?

(CV) Mi è sempre piaciuta l’idea di farmi influenzare dalla musica che ascolto, provare a trasferire sulla pagina ritmo ed energia di una canzone, o di un gruppo che amo, ma è un processo che razionalmente non sono mai riuscito a fare; se in quello che scrivo ci sono influenze musicali sono inconsapevoli. Credo comunque che gli ascolti trovino lo stesso una loro strada per arrivare sulla pagina, ma che lo facciano prendendosi del tempo per farsi metabolizzare, scomparire nelle cellule della nostra mente e riemergere attraverso un’altra forma di vita. Non per forza la musica che si ascolta in un certo periodo influenza quello che si sta scrivendo in quel momento; magari lo farà a distanza di mesi o di anni.

(MF) Mi regali una canzone di nicchia e una canzone ultra pop alle quali sei legato e che vorresti condividere con chi sta leggendo?

(CV) Dare avere, Marco Parente. Walk this way, Run DMC.

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I tre racconti citati li potete trovare nella raccolta Ti racconto una canzone A.A.V.V. a cura di Massimiliano Nuzzolo, in collaborazione con Eleonora Serino, uscito a febbraio 2022 per Arcana editore.

Hotel Lagoverde

Entrando nella hall dell’albergo Lagoverde ci accoglie un’inconfondibile canzone di sottofondo che rimarrà sottotraccia per tutta la lettura: si tratta di Hotel California degli Eagles, un suggestivo racconto in musica che sembra riverberare in ogni stanza.

Il dottor Stein, il direttore, arriverà più tardi, intanto ci accolgono Augusto, Margherita e il resto del personale dell’albergo, che sembrano aspettare proprio noi, da sempre.

Non è stato semplice arrivare: l’albergo si perde tra le valli boscose del centro Italia, la segnaletica è incompleta e proprio quando si pensa di essersi persi ecco che il bosco si apre su un lago dalle acque scure e, poco più avanti, la facciata elegante dell’Hotel Lagoverde, con la fontana, il piazzale di ghiaia, le aiuole curatissime.

Il posto sembra deserto, gli altri ospiti sono fuori ma torneranno per cena, ci dicono, e intanto prendiamo possesso della nostra stanza al primo piano e ci mettiamo in ascolto, in lettura.

Hotel Lagoverde è un progetto ideato e curato da Gianluigi Bodi, che ha ospitato in ogni stanza dell’albergo uno scrittore diverso, dandogli la consegna di scrivere un racconto su quel luogo così ospitale, così misterioso (such a lovely place). Ci troviamo così di fronte a una raccolta di racconti scritti da più autori, ognuno con la sua voce riconoscibile, ciascuno ambientato all’Hotel Lagoverde, tutti auto conclusivi eppure intimamente legati, in una rete di riferimenti comuni, alcuni evidenti, altri più sotterranei.

I racconti, si dice, non attirano il grande pubblico ma non è sempre stato così. Si pensa addirittura che i racconti siano solo una scuola su cui si formino gli autori dei romanzi di domani. Eppure tra romanzo e racconto c’è un’enorme differenza, che poco c’entra con la lunghezza del testo, quanto con la sua essenza narrativa. Lo spiega bene Bodi nella prefazione, citando un celebre saggio di Cortazar sull’argomento.

Gli autori che hanno occupato le stanze di questo albergo sono tutti eccellenti scrittori, sia di romanzi, sia di racconti. La forma breve permette loro di giocare con la lingua, con la struttura, di approfondire un sentimento o di reggere un gioco letterario, il tutto coinvolgendo il lettore. Il fatto poi di condividere non solo un tema ma anche un luogo che è spazio e tempo e sentimento, crea un’unione intima tra i racconti, che è molto di più che un debole filo rosso con cui cucire insieme le pagine.

La bellezza di leggere questa raccolta è simile al piacere che si prova di fronte a un vassoio di pasticcini: alcuni li conosciamo e sappiamo già che ci piaceranno, altri magari ci lasceranno il dubbio sui loro ingredienti, altri ancora saranno dolci scoperte.

Premesso che il livello dei racconti è molto alto, non ho potuto fare a meno di scegliere i miei preferiti. Un caro amico mi ha scritto: “Qual è il racconto che ti è piaciuto di più, e perché proprio quello di Paolo Zardi?”. E io mi sono messa a ridere perché è proprio così: L’ultima estate è un racconto stupendo, di un Paolo Zardi in stato di grazia, che scrive sull’orlo della nostalgia senza mai lasciarsi affascinare dalla disperazione, con una chiarezza nel cogliere certi passaggi dell’anima che ha un che di sfolgorante e illumina la storia di un uomo anziano che, dopo il divorzio, torna all’albergo dove aveva passato le estati della sua infanzia, l’Hotel Lagoverde, appunto.

L’odio coniugale è carbonato di calcio che percola lungo le pareti di una grotta e poi si solidifica in stalattiti. Servono tempi lunghi e molta pazienza; noi ne abbiamo avuta, evidentemente, perché abbiamo lasciato che quella forza crescesse un millimetro al giorno. Mi ha lasciato lei, ma è stato un caso. Ci siamo passati mille volte la pistola carica, ed eravamo sempre sul punto di premere il grilletto, trattenuti dalla pietà, o da una forma molto raffinata di crudeltà. Ora sono libero, che è un altro modo di dire che sono solo.

Altro racconto che mi è piaciuto molto è quello di apertura, L’amore che cambia di Emanuela Canepa, la storia di una coppia che incappa per caso (o forse no) in questo albergo sperduto e fa i conti con un rapporto inceppato da tempo, trovando alla fine un’incredibile soluzione, al limite tra ironia e grottesco, con una punta di perturbante.

Invecchiare invece ha cambiato la configurazione delle cose. Il paradosso è che negli anni, a forza di andare in palestra, certe imperfezioni localizzate le ho risolte. Ma questo non frena la decadenza generale. È la struttura complessiva che vibra e collassa. La geografia del sistema diventa irriconoscibile. Sull’imperfezione puoi sempre intervenire in un modo o nell’altro. Il disegno globale invece non lo recuperi più. Anzi, ad accanirti fai peggio. Se eviti di forzare, può anche darsi che l’organismo ti faccia la cortesia di collassare con grazia. Ma se ti accanisci è la stessa cosa che tentare di risolvere il problema con una palla da demolizione. In un attimo sono macerie. Questo l’ho capito. Sempre stata onesta fino alla scarnificazione. Però mi fa incazzare.

Tra i magnifici tre non posso poi inserire il racconto Morphelix di Domenico Dara. Scritto in un linguaggio forbito e quasi anacronistico, tesse la storia di un uomo che non ha mai vissuto e che solo all’Hotel Lagoverde scoprirà quello che gli è sempre mancato, spezzandomi il cuore all’ultimo paragrafo.

Michele Orti Manara ha creato un racconto ricorsivo che affonda le sue radici nel gotico e nel perturbante, Cristò dà vita al personaggio di un blogger che si dedica alle letture estreme, Alessandro Cinquegrani scrive terribili lettere d’amore, Ivano Porpora ci sprofonda in un’ossessione silenziosa, Giulia Mazza storce la nostra prospettiva, Daniela Morano ci spiazza con un racconto piano che si avvita in un colpo di scena finale. Infine arriva Gianluigi Bodi a raccogliere tutte le briciole sparse nel bosco e a ricondurci, ancora una volta, all’Hotel Lagoverde, dove tutte le storie vanno a finire.

Last thing I remember, I was
Running for the door
I had to find the passage back
To the place I was before
“Relax, ” said the night man,
“We are programmed to receive.
You can check-out any time you like,
But you can never leave! “

Hotel Lagoverde, edito da LiberAria, è un progetto ideato e curato da Gianluigi Bodi, ottimo scrittore di racconti e curatore di Senzaudio, un blog che da anni è un punto di riferimento per gli appassionati di case editrici indipendenti e non solo.